Sull’amore (Fausto Pellecchia)

Da Gabrielederitis @gabriele1948

Che la filosofia contenga già nell’etimo del suo nome un’originale  relazione con l’amore e il desiderio, è una caratteristica tenacemente rammemorata nella sua plurimillenaria tradizione.
 
Si suole ripetere che proprio questa relazione amorosa definisca la sua  dimora, nella distanza che la separa tanto dalle solitarie vette della sophia, quanto dai virtuosismi dell’antilogia sofistica.
 
Ma essa non potrebbe  attestarsi come inesauribile amore del sapere senza costituirsi, al tempo stesso, come sapere dell’amore, nel senso però di un genitivo soggettivo che non riesce mai a venire a capo di se stesso come genitivo oggettivo. In altri termini,  l’amore in cui abita la filosofia sarebbe nient’altro che un pensiero che ama o l’amore stesso in quanto pensa e si pensa, senza mai riuscire a raggiungersi come un sapere d’amore (che resta piuttosto riservato alla poesia e alla letteratura).
 
D’altra parte, proprio a Platone, che ne segnò per sempre la storia, vien fatta risalire la prossimità di quella scienza senza oggetto, che in occidente prese il nome di ontologia – sapere votato all’esistente puro, senza  proprietà – e della passione amorosa. Ciò a cui la filosofia volge il suo sguardo affascinato è l’esistente come tale che, sottraendosi ad ogni predicato reale, può essere appresa solo come punto di arresto del potere nominante del linguaggio.
 
Reciprocamente, ciò che appassiona nell’amore è propriamente solo l’esistenza dell’Altro che, svelandosi come imprendibile prossimità, si mostra come l’unico, quotidiano “miracolo” di cui ci sia riservata l’esperienza. L’intenzione suprema della filosofia consiste infatti nell’educare alla meraviglia più trita e, al tempo stesso, più imparabile: lo stupore che l’altro semplicemente sia, al di là o al di qua delle mie attese, dei miei desideri o del mio potere, meravigliosamente sciolto dalle parole e dai discorsi che tentano di catturarlo e di darne ragione – essendo piuttosto, proprio in questa loro impotenza, già da sempre a lui rivolti.
 
Di qui, l’inconsistenza dei tratti che nel discorso corrente sono raccolti sotto la rubrica di “amore platonico”.  Tanto l’idea che l’amato sono infatti esprimibili solo attraverso la radicale anonimia del nome, cioè attraverso l’impossibilità del nome di nominare la sua stessa capacità di chiamare l’Altro, di rivolgersi unicamente ad esso.
 
Non è un caso che l’idea platonica abbia la sua espressione tecnica nel nome della cosa seguito da “autò”, cioè nell’anafora del nome: l’idea della rosa è “la rosa stessa”.  Reciprocamente, la tesi secondo cui  l’Agathon è l’idea al di sopra di ogni altra idea, esprime il singolare statuto ontologico dell’amore: l’Agathon (solitamente tradotto con “il Bene”) non ha alcuna connotazione morale, ma appartiene alla famiglia di “agapao” (= amare, aver caro, da cui “agapeton” = amabile, desiderabile).  Che “esistente”  (ens) non sia un predicato reale, ma inerisca a ogni predicazione senza però aggiungervi alcuna proprietà, ciò può solo significare, se ben si riflette, che l’“agape” insegue unicamente l’essere dell’altro, non le sue qualità; e poiché  non potrebbe mai appropriarsene, lo cerca solo mantenendosi da esso indefinitamente a distanza: lo reclama, lasciandolo essere tale qual è, nella splendida sembianza del puramente Amabile.
 
Una prima indicazione proviene dall’aporia della categorizzazione dell’oggetto amato.  Ciò che rende possibile l’innamoramento e ne costituisce la causa, non è né il bello, né il buono né, tanto meno, la somma dei predicati reali con cui invano l’intelletto si sforza di afferrare l’essenza dell’amabile.
 
Se l’amante si dichiarasse dicendo: “Ti amo perché sei bello e intelligente, perché sei onesto e generoso, perché mi copri di attenzioni, perché mi sei fedele, ecc.”, bisognerebbe assolutamente diffidare delle sue parole. Molto più disperatamente autentica sarebbe l’ammissione costernata:  “Sono follemente innamorata di te, sebbene tu non sia né bello né intelligente, ed anzi un bugiardo,  egoista e  mascalzone…!”.
 
In questo senso, un’erotica filosofica sarebbe una versione profana della teologia della grazia:  l’essere eletti  senza merito, in virtù di un imperscrutabile volere – per non dire un capriccio – del dio, diviene il presupposto necessario da cui misteriosamente consegue l’amabilità  dell’oggetto. Per questo, ogni sapere e ogni discorso d’amore si arresta, infine,  sulla soglia del nome dell’amato, che lo interpella e  lo invoca nella sua intatta, inafferrabile singolarità.

  

       


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