Sulla bocca

Da Foscasensi @foscasensi

Arrivai che il sole era già alto e puzzavo di cabina di seconda classe, che adesso è un po’ come dire ultima o infima. La stazione di Sarzana aveva un occhio aperto sul parcheggio, con una terrazza di pitosforo secco, e un altro sui binari deserti. Mi asciugai la faccia alla manica e decisi di ordinare una birra al bar di fronte, che offriva tavolini di plastica e un gerente poco interessato alla cura della propria persona. Così mi accomodai. Nella borsa avevo una cipria e una storia dell’arte; poiché temevo quel che avrei potuto vedere allo specchio tornai al capitolo sulle chiese romaniche che avevo abbandonato all’altezza di Carrara, quando una voce ferroviaria aveva invitato i viaggiatori a prepararsi a scendere.

in questo paese si dipinge per svago, si suona per disperazione e si legge per legittima difesa. le cose devono cambiare

Intorno a me c’erano blocchi di palazzine in calcestruzzo. Dalle finestre pendevano graticci di gerani illividiti dal sole. Gli intonaci, spappolati, avevano un sentore di calce e farina di cece. Qualche donna sedeva sul terrazzo con le spalline della canottiera abbassate e il petto unto per prendere colore mentre io, eccitata dalla birra, gocciolavo sulla riproduzione della navata centrale di Notre Dame de Paris e attingevo con ostinazione da un piattino di semi tostati. Prima della Cattedrale delle Cattedrali il libro mostrava il Partenone e la chiesa di San Sisto di Pisa. Ogni immagine era la testimonianza di un soffio che a me sembrava continuo e che procedeva, inutile dire in quale direzione, verso la propagazione di se stesso. Mi era impossibile, masticavo pensando, mi era impossibile cogliere il momento preciso nel quale un movimento si trasformava in qualcos’altro, una cosa diventava un’altra.
Questo pensavo quando sentii una voce da sopra la mia spalla che diceva: “Non so per quale motivo l’Occidente debba inventare limiti alla propria immaginazione. Probabilmente dev’essere per superarli”. Eusebio aveva un modo suo di gestire le entrate e le uscite di scena, e io mi lasciavo sempre cogliere impreparata. Dopo che ebbe parlato lo osservai aggirarmi, pescare un seme di zucca e sedersi; poi intuii che accavallava le gambe e infine mi sorrise, non so se in cenno di saluto o di simpatia per il sudore che mi stava inzuppando il petto. Al tavolo accanto qualcuno doveva aver mancato una briscola ma Eusebio non parve accorgeresene. Portava una camicia che lasciava trasparire lo scuro della pelle, frugò e depose sul tavolo un quaderno molto maneggiato, che soppesò quasi con tristezza. Al che mi si rivolse ancora una volta, ma con una voce che aveva perso ogni giovialità. “Oh, Fosca – fu capace di dire – non abbandonarmi mai”.
Ecco, io conoscevo quel quaderno perché conteneva pressappoco quello che ci eravamo detti in circa quattro anni di una conoscenza labile, profonda e quasi folle. Eusebio aveva un’inclinazione a sciogliere la sostanza delle persone nel suo proprio inchiostro e regalare loro un posto in una mitologia sproporzionata per qualsiasi orgoglio, e non priva di genio. In altre parole era un poeta e uno scrittore, e quel che è peggio un poeta e uno scrittore di talento e senza alcun senso della misura per il proprio valore e quello degli altri. Poteva succedere che scordasse un appuntamento con la stessa grazia con la quale era capace di finire i soldi del mese per pagare una cena. Per il resto lo incontravo a Pisa nel tragitto verso la mensa universitaria. Camminava come un Rimbaud di provincia, ma più colto e più vecchio, con la delicatezza di indossare capi tristi e borse a tracolla piene di appunti in disordine. Una mattina ci incontrammo sulle scale che portavano alle aule. Era un giorno luminoso ed Eusebio, dopo un’occasione quasi formale in cui fummo presentati, per la prima volta mi rivolse la parola. A quei tempi faticavo molto per tenermi in pari. Non conoscevo il latino e il greco (e per quanti sforzi abbia fatto tuttora mi risultano inavvicinabili), né avevo alcuna predisposizione per le materie della Facoltà di Lettere, alle quali mi applicavo si può dire con disperazione. Studiavo senza l’idea di dove sbattere la testa, ma soprattutto con la consapevolezza di non conoscere la cosa fondamentale che faceva degli altri gli altri, e di me stessa una sgobbona senza alcun genio. Al contrario, Eusebio sembrava impastato di un’altra sostanza. Portava il suo corpo con grazia per le scale e sempre salendo mi domandò cosa ne pensassi di Gadda. Io, che avevo il fiato mozzo, quasi mi infuriai. Gadda? quell’ebefrenico cresciuto? il corpaccione soliloquista, il grande triste, il cabarrettista cannibale, lo schizolalico? Parlai di un suo libro che non avevo letto, inventai tre o quattro teorie, quel che avrebbe potuto dire e quel che avrebbe detto, confusi le lingue, morsicai quel che c’era da morsicare e trasformai un semplice scambio di parole sul pianerottolo della scuola in una concione sconcertante. Eusebio schiuse leggermente le labbra e mi parve arrossire, al che ebbi paura e liquidai l’argomento dicendo che avevo sparato delle cazzate. Poi cercai un bagno e del resto della giornata ancora adesso non ricordo nient’altro. Inspiegabilmente, però, continuammo a frequentarci. L’allora governo di centrodestra aveva assestato uno dei colpi più tremendi al sistema scolastico che io ricordi da quando sono nata. Al di là delle possibili destinazioni di fondi, per le quali non ho mai avuto molta agilità di pensiero, mi sconcertava il fatto che per ogni esame universitario venisse assegnato un punteggio, e che la somma dei punti culminasse con l’ammissione all’esame per discutere la tesi. Ma non ero la sola ad essere indignata. Nelle piazze di tutta Italia i movimenti studenteschi organizzavano lezioni all’aperto. Alcuni professori, più fini, avevano dato titoli ironici alle loro dispense, tipo “Filologia italiana, cinque punti”.
Alla sera Eusebio mi aspettava vicino ai lampioni del Lungarno. Dove approderemo quando lo studio sarà diventato una semplice prestazione, quando le persone non avranno più possibilità di confronto per capire che i sistemi a punteggio sono più che un percorso a tappe un percorso a ostacoli, che non ha molta importanza terminare un ciclo di studi negli anni curricolari se alla fine non è servito a nulla se non a trovare lavoro o al massimo una migliore qualifica di disoccupazione? Questo ci domandavamo mentre la sera si faceva fredda lungo il fiume che attraversa la città di Pisa, le auto si ammassavano per le strade e le nostre famiglie ci aspettavano a casa, per cena. I lampioni erano accesi e a seconda della stagione qualche vogatore fendeva il nastro dell’acqua, senza che dal ponte si sentisse rumore. Allora Eusebio prendeva quel suo quaderno nero e secco e l’apriva a caso, come per buttar giù qualche appunto. Giorni dopo mi mostrava pagine e pagine scritte sempre a mano, con una grafia selvaggia, dalle quali si capiva che aveva letto e compreso molto più di quel che riuscivo a fare io nella mia solerzia maldestra; ma soprattutto in quel suo modo immaginoso aveva concepito risposte di sicura intelligenza a problemi che nemmeno i tecnici più strutturati parevano in grado di risolvere.

(Il racconto continua nel prossimo post. Per l’intanto sto ascoltando gli Studi sinfonici op. 13 di Schumann, al pianoforte Luca Evangelisti Pieruccioni)



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