In particolare, la grande disponibilità di giovani in cerca di occupazione sul mercato del lavoro fa fregare le mani ai selezionatori, i quali non hanno altro da fare che calare la rete in acqua e prendere quanti più pesci possibili, scartando quelli indesiderati e tenendosi il meglio.
Questo è il mercato, ma che dire se anche la scuola e l'università si comportassero così? Nel corso della sua storia la scuola italiana si è sempre trovata nel fuoco incrociato delle posizione del centro-destra contro quelle di sinistra, vale a dire nello scontro tra una scuola dove il canale "nobile" dell'istruzione (quello dei licei) è nettamente separato dal canale più umile, caldeggiato soprattutto dai cattolici, della formazione professionale (centri di formazione, istruzione e formazione professionale, apprendistato); e tra una scuola inclusiva ma troppo generalista, dove la stessa istruzione viene impartita almeno fino ai 16 anni per ogni studente, a prescindere da attitudini ed aspirazioni.
Anche in questo ambito, la crisi economica fa da cartina tornasole: l'istruzione superiore non è garanzia di un lavoro in linea con i propri studi e le proprie aspirazioni – per non parlare dell'università, ormai anticamera del precariato per quasi tutte le facoltà – mentre la formazione professionale sembra vista di buon occhio da imprenditori e centri per l'impiego, quelli che, in parole povere, danno lavoro. Non solo. Lo scollamento dell'istruzione accademica dal mondo del lavoro fa sì che sempre più giovani abbandonino l'università una volta rimasti a corto di alternative, così succede che paradossalmente il numero degli studenti univeritari cala, ma l'impressione è che ce ne siano sempre troppi. Morale: in alto i cuori quando si parla di numero chiuso e di selezione all'ingresso dell'università, per non lasciare disoccupati i laureati una volta usciti.
Questo è un grosso rischio: se il mercato del lavoro non trova negli universitari le competenze che cerca non è colpa dei ragazzi che si sono iscritti con fiducia, ma forse poco consigliati, nel canale educativo del "lavoro sicuro", bensì di quella stessa università che, sempre più autoreferenziale, li tiene lontani anziché immetterli al lavoro vero. Quel lavoro che, invece, conoscono fin troppo bene i coetanei che, non riuscendo proprio a stare sui banchi, dopo pochi anni di formazione professionale si sono formati sul campo, ma con quali prospettive, se non continuano la propria formazione, non si aggiornano e non coltivano il proprio lavoro?
In questi giorni si sta abbozzando la nuova riforma renziana, questa volta sul versante istruzione. Ci auguriamo che abbia il buon senso di non considerare tutti uguali gli studenti, ma di valorizzare anche chi ritiene irrecuperabile, e viceversa di avvicinare chi sa studiare ma trascura il sapere pratico e parallelamente di non abbandonare a se stessi i ragazzi che devono ancora orientarsi. Altrimenti sarà di nuovo carta morta