Andiamo con ordine.
Io vivo a Palermo e ho esperienza diretta di cosa voglia dire selezione del personale di tipo privatistico da parte dei dirigenti scolastici. Anni fa, il gestore di una scuola paritaria mi disse chiaramente che loro non assumevano se non dietro segnalazione: cioè "no raccomandato, no party". Non ha senso far nomi, in quanto la scuola in questione ormai sta chiudendo e quella era solo un'affermazione che una persona ha fatto e altre pudicamente si sono risparmiate. Ma le cose stanno così. Quest'anno, se non si fossero verificati una serie di eventi fortunati e un mio drastico (e dolorosissimo) cambio di rotta, io non avrei lavorato. E, come me, tanti altri.
Ora: al mio curriculum vitae non manca assolutamente nulla perché io debba temere il confronto con altri colleghi e, detto senz'alcuna immodestia, in quanto professionista non mi pare di essere oggetto di particolare disistima, anzi. Solo che, di fronte a meccanismi come quello appena presentato, né un fattore né un altro possono avere il minimo peso nella speranza di un contratto di lavoro (e poco importa, qui, la durata di questo contratto). La selezione privatistica del personale nella mia esperienza è uno degli ambiti nei quali carriera pregressa e stima personale contano poco: i dirigenti prediligono un discorso malato di becero familismo, di finanziamenti più o meno occulti e "ammanigliamenti" politici, anche a costo di danneggiare la sana politica economica di un'impresa e il suo successo oggettivo sul mercato.
Caso diverso è quello delle scuole paritarie, ovvero delle scuole pubbliche (perché rivolte potenzialmente a un'utenza eterogenea per provenienza) non statali (vale a dire ad amministrazione privata). Di per sé, queste realtà sono tutto tranne che Il Male che viene disegnato, specie da certe falangi di pensiero di sinistra. Né mi sembra giusto dire che non sono rappresentative della realtà: lo sono, eccome, anche se di una realtà per forza di cose ristretta. Mi sembra che parlare di finanziamenti alle scuole "private" sia un'indebita semplificazione e presti il fianco a più di un equivoco. Prima di tutto, ci sono "scuole private" e "scuole private". Anche i più orrendi diplomifici, ovvero quei supermercati della promozione (e del punteggio per docenti) che tutti conosciamo nelle nostre città, riproducono nient'altro che una tendenza di certe scuola statali, sia pure con meccanismi solo più apertamente vergognosi. Vale a dire che le dinamiche lì sono di tipo più commerciale di bassa lega e quello che manca alla concorrenza "pubblica" è il pagamento della somma di denaro. Vale a dire che i diplomifici sono spesso un pessimo affare economico per le famiglie. Ma poi ci sono altre scuole, in Italia di solo ordine confessionale, che offrono un'istruzione diversa, talvolta molto migliore di altri istituti, orientando la didattica secondo un preciso progetto culturale e le richieste dell'utenza (che magari non vuole, o non vuole soltanto, la promozione all'anno successivo).
Per questo non trovo nulla di male a che gli studenti che frequentano le scuole paritarie serie possano godere di sovvenzionamenti pubblici, in attesa che la scuola statale si attrezzi a variare e perfezionare la propria offerta formativa nel modo che più le è consono e utile sul territorio. Ma devono essere gli studenti, e non le amministrazioni private, a godere in prima persona di questi soldi pubblici, attraverso concorsi nazionali che coinvolgano tutti gli scolari d'Italia, premiando i più "capaci e meritevoli", a prescindere dall'ente che fornisce loro l'istruzione (e dunque privilegiando dove occorre le scuole non statali a quelle statali, anche pesantemente).
Il punto, infatti, è decidere di attribuire importanza a questo processo di trasformazione dei giovani in cittadini attraverso precise politiche culturali comuni che si basino sull'apertura all'altro. Io, da professore, a differenza dei politici, non conosco nessun "altro" più importante dei miei alunni e del futuro al quale mi avvio.