Sulla privatizzazione della scuola

Creato il 03 marzo 2014 da Spaceoddity
Due dati spiccano dalle dichiarazioni attribuite a esponenti diversi del nostro governo: è la proposta di affidare ai presidi la gestione del personale scolastico, dunque l'allontanamento dei professori incapaci o comunque inadeguati al loro ruolo per qualsiasi motivo e l'assunzione di nuovi docenti, l'altro il finanziamento alle scuole private in nome di un malinteso pluralismo.

Andiamo con ordine.
Io vivo a Palermo e ho esperienza diretta di cosa voglia dire selezione del personale di tipo privatistico da parte dei dirigenti scolastici. Anni fa, il gestore di una scuola paritaria mi disse chiaramente che loro non assumevano se non dietro segnalazione: cioè "no raccomandato, no party". Non ha senso far nomi, in quanto la scuola in questione ormai sta chiudendo e quella era solo un'affermazione che una persona ha fatto e altre pudicamente si sono risparmiate. Ma le cose stanno così. Quest'anno, se non si fossero verificati una serie di eventi fortunati e un mio drastico (e dolorosissimo) cambio di rotta, io non avrei lavorato. E, come me, tanti altri.
Ora: al mio curriculum vitae non manca assolutamente nulla perché io debba temere il confronto con altri colleghi e, detto senz'alcuna immodestia, in quanto professionista non mi pare di essere oggetto di particolare disistima, anzi. Solo che, di fronte a meccanismi come quello appena presentato, né un fattore né un altro possono avere il minimo peso nella speranza di un contratto di lavoro (e poco importa, qui, la durata di questo contratto). La selezione privatistica del personale nella mia esperienza è uno degli ambiti nei quali carriera pregressa e stima personale contano poco: i dirigenti prediligono un discorso malato di becero familismo, di finanziamenti più o meno occulti e "ammanigliamenti" politici, anche a costo di danneggiare la sana politica economica di un'impresa e il suo successo oggettivo sul mercato.
Sulla base di cosa, esattamente, un dirigente scolastico dovrebbe selezionare il personale e quale sarebbe, a quel punto, il rapporto tra la direzione e i professori, se non un rapporto di dipendenza? Ma andiamo oltre, per essere più chiari e completi: sulla base di quale progetto culturale e didattico un docente dovrebbe essere preferito a un altro? Come può, un preside, spingere un professore a perfezionarsi in ottica di un servizio al territorio e all'utenza piuttosto che nelle alleanze pseudopolitiche? Cosa è in grado di garantire una persona rispetto a un'altra che ne fa un dipendente preferibile? In tutto questo discorso, manca l'aggancio a un progetto che vada oltre il risparmio di cassa e una genericissima e ancor più fumosa nozione di qualità. Chiunque sa che il P.O.F. (Piano dell'Offerta Formativa) consegnato ai genitori è un documento di carta che, solo a costo di funambolismi circensi, può trovare una qualche eco nell'operato della scuola. In fin dei conti, il P.O.F. nella maggior parte dei casi si offre come un messaggio pubblicitario troppo lungo e ininfluente. Per fortuna, dico, "ininfluente", perché il suo scopo non è orientare, selezionare il meglio, ma aggiungere allettamenti di vario tipo nella speranza che qualche voce funzioni e qualche famiglia abbocchi.
Caso diverso è quello delle scuole paritarie, ovvero delle scuole pubbliche (perché rivolte potenzialmente a un'utenza eterogenea per provenienza) non statali (vale a dire ad amministrazione privata). Di per sé, queste realtà sono tutto tranne che Il Male che viene disegnato, specie da certe falangi di pensiero di sinistra. Né mi sembra giusto dire che non sono rappresentative della realtà: lo sono, eccome, anche se di una realtà per forza di cose ristretta. Mi sembra che parlare di finanziamenti alle scuole "private" sia un'indebita semplificazione e presti il fianco a più di un equivoco. Prima di tutto, ci sono "scuole private" e "scuole private". Anche i più orrendi diplomifici, ovvero quei supermercati della promozione (e del punteggio per docenti) che tutti conosciamo nelle nostre città, riproducono nient'altro che una tendenza di certe scuola statali, sia pure con meccanismi solo più apertamente vergognosi. Vale a dire che le dinamiche lì sono di tipo più commerciale di bassa lega e quello che manca alla concorrenza "pubblica" è il pagamento della somma di denaro. Vale a dire che i diplomifici sono spesso un pessimo affare economico per le famiglie. Ma poi ci sono altre scuole, in Italia di solo ordine confessionale, che offrono un'istruzione diversa, talvolta molto migliore di altri istituti, orientando la didattica secondo un preciso progetto culturale e le richieste dell'utenza (che magari non vuole, o non vuole soltanto, la promozione all'anno successivo).
Ora, per quanto si possano non condividere certe posizioni, in Italia sui temi etici, è indubbio che queste scuole svolgono un servizio che la scuola statale non è ancora attrezzata per offrire. Sotto questo aspetto, la "privatizzazione" della scuola, sulla carta e solo sulla carta, potrebbe essere una scappatoia, anche se non una soluzione. D'altronde, è indubbio che anche il pluralismo della scuola statale è una precisa scelta culturale e il suo etichettarlo come una non-scelta o una "scelta debole" (denigrazione amatissima dai cattolici oltranzisti) è una delle tare del sistema scolastico "privatistico" confessionale italiano. Vale a dire, detto senza nessun eufemismo, che dal mio punto di vista è inaccettabile l'inversione che alcuni istituti confessionali fanno tra momento etico e momento politico: non trovo giustificazione perché l'autodeterminazione esistenziale possa essere limitata da un salvacondotto politico, nell'imporre un'etica di stato o comunque preventiva. L'etica è conseguenza di una maturazione libera e sana, il più possibile aperta, dunque non pregiudiziale (o pregiudizialmente universale), da tutte le parti. Mentre è auspicabile, tra le altre, una didattica ispirata a una dottrina, è deleteria e infausta una didattica della dottrina stessa in sede di istruzione pubblica. Vero è che, in sede politica certe scelte devono essere prese e devono configurarsi quali provvedimenti validi per tutti, senza concessioni relativistiche alle possibilità alternative, ma non è accettabile che quest'imposizione legislativa (in ogni senso) venga ammantata da un dogmatico manicheismo ("bene" = legale, "male" = illegale), altrimenti non se ne esce più e la conseguenza è l'immobilismo.
Per questo non trovo nulla di male a che gli studenti che frequentano le scuole paritarie serie possano godere di sovvenzionamenti pubblici, in attesa che la scuola statale si attrezzi a variare e perfezionare la propria offerta formativa nel modo che più le è consono e utile sul territorio. Ma devono essere gli studenti, e non le amministrazioni private, a godere in prima persona di questi soldi pubblici, attraverso concorsi nazionali che coinvolgano tutti gli scolari d'Italia, premiando i più "capaci e meritevoli", a prescindere dall'ente che fornisce loro l'istruzione (e dunque privilegiando dove occorre le scuole non statali a quelle statali, anche pesantemente). In questo modo si eviterà la dispersione dei fondi alle "scuole private", al plurale, e si tornerà a chi è soggetto e protagonista di tutta questa macchina sociale chiamata scuola, al singolare. Non c'è niente di più serio di una progettazione dell'uomo di domani: non come prodotto finito, ma come prospettiva attraverso cui intravvedere il futuro.
Il punto, infatti, è decidere di attribuire importanza a questo processo di trasformazione dei giovani in cittadini attraverso precise politiche culturali comuni che si basino sull'apertura all'altro. Io, da professore, a differenza dei politici, non conosco nessun "altro" più importante dei miei alunni e del futuro al quale mi avvio.

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