Il divieto del mandato imperativo, andrebbe oggi rivisto all’indomani di tutte le storture cui ha dato origine.
L’esercizio parlamentare, senza vincolo di mandato, si è, nei fatti e nelle (allegre e cattive) abitudini, esteso all’irresponsabilità pressochè assoluta, nei confronti della propria dichiarata, originaria appartenenza e del corpo elettorale che, sulla base delle idee, della collocazione e dei programmi, esprime il suo voto ed il suo consenso.
Bisognerebbe concepire un’integrazione grazie alla quale, nel caso di totale disattesa dei presupposti di questa delega, si ricorra ad elezioni suplettive (nel collegio/circoscrizione in cui uno è stato eletto), per non consentire più disinvolte migrazioni da un versante all’altro o la proliferazione di nuove formazioni, create sulla rottura, che si garantiscono la permanenza in Parlamento, quasi fosse un diritto ereditario.
Equiparare, cioè, questo vizio malsano a quelle casistiche già contemplate: come se l’eletto avesse cessato il mandato, fosse decaduto, si fosse dimesso o fosse deceduto.
Disciplinare, in qualche misura, l’obbligo del rispetto e della garanzia d’un rapporto fiduciario che, nel momento in cui viene a mancare, necessita d’un rinnovo.
Arginare indecenti trasformismi, dal sapore tipicamente italiano, sottoponendoli al giudizio della volontà popolare, che potrà così confermare o negare il suo consenso, vedere assicurato un maggior rispetto di quella sovranità che si esprime anche con un patto fondato sul reciproco rispetto.
Cosa farebbe ciascuno di noi se un delegato o un fiduciario non fossero più portatori dei nostri interessi? Diventerebbero subito degli ex, presumo.
Perdura, invece, una ormai assurda differenza di trattamento tra queste fattispecie e il tradimento delle istanze che hanno determinato l’elezione.
Perchè continuare a consentire quest’irresponsabilità a chi non ha voluto tenere alte le nostre belle bandiere?
Altra riforma, per favorire il rinnovo della rappresentanza, delle classi dirigenti e di tutti gli inamovibili geronti del potere, dovrebbe riguardare il divieto di candidarsi in più collegi/circoscrizioni, in virtù d’un sistema maggioritario (seppur temperato) che non deve favorire l’elezione certa dei soliti noti, le cordate, la cooptazione e il proliferare di nomenklature che detengono saldamente il potere acquisito e lo tramandano tra di loro o ai loro fiduciari.
Lo stretto legame col territorio e il maggior grado di rappresentatività dei candidati ha, anch’esso una sua rilevanza politica.
Mi fa specie che un candidato, eletto in più collegi elettorali, possa optare per quello (a lui) più conveniente.
Talvolta per favorire la scalata del primo dei non eletti che fa capo alla stessa corrente oppure per impedire la proclamazione di un avversario interno. In qualsiasi caso: perchè si devono strutturare le liste con candidati onnipresenti? Ci sono così poche persone candidabili? Si può sapere da chi, la solita nomenklatura, ha ereditato il raro dono dell’ubiquità?
È fumo negli occhi dell’elettorato. Tu hai l’illusione di votare per uno e ti ritrovi eletto un altro, non di rado per niente rappresentativo del tuo territorio.
Resta, altresì, sacrosanta quella necessaria limitazione della reiterazione del mandato, generatore di un immarcescibile professionismo della politica dei null’altro facenti, che impedisce il ricambio generazionale e, sovente, nega e cancella la rilevanza della tutela dell’interesse pubblico – reso alla collettività con spirito di servizio – e cede il passo a quelli privatissimi.
Il richiamo alla responsabilità è più che mai urgente. Le aggregazioni politiche, pur nella loro autonomia riguardante la loro forma, devono rispettare alcuni principi fin qui trascurati e assenti: tra questi, l’obbligo di depositare uno statuto con tutti i requisiti di democrazia interna e la pubblicazione dei bilanci per testimoniare la trasparenza nella gestione del denaro pubblico.
Sulla riforma elettorale che tarda a venire, quasi a voler ulteriormente rinviare se non scongiurare il ricorso alle urne, se è vero che siamo (quasi) tutti sicuri della bontà d’un sistema a vocazione più maggioritaria che proporzionale, sarebbe opportuno, orientarsi su un turno unico, capace di render chiare, meno sibilline e fumose, le alleanze e le coalizioni. Sin dall’origine e non a posteriori. E, pure in questo caso, non risulterebbe fuori luogo stabilire regole certe sulla selezione delle candidature. O vogliamo ancora favorire la scelta del “collegio sicuro”, la guerra per le candidature, le liste dei nominati e quant’altro ha avvelenato la politica?
A proposito del turno unico, oltre le solite considerazioni sui maggiori costi di un sistema con ballottaggio, renderebbe da subito evidenti quelle prospettive e quegli orizzonti che non possono diventare poi mutevoli a seconda delle convenienze, degli opportunismi o sulla scia dell’esito, condizionante, del primo turno. Limiterebbe i doppiogiochismi dell’ultim’ora, il mercato delle vacche dei ballottaggi e le alterazioni ideate per attrarre elettorato al secondo turno.
Cerchiamo di prenderci il meno in giro possibile, senza regole certe e senza il loro rispetto, non esiste sistema elettorale capace di garantire e da cui discenda una duratura e invulnerabile governabilità.
Altrimenti, per evitare inutili ipocrisie e insensate finzioni, tanto vale, tornare ad un bel proporzionale che, perlomeno, risulterebbe maggiormente rappresentativo di tutte le istanze politiche, maggioritarie e minoritarie, presenti nel nostro panorama. Senza alcun paradosso, se si considera che una delle priorità, per questo paese, potrebbe esser quella di realizzare una nuova fase Costituente.
Queste considerazioni sparse sulle ceneri della democrazia non più adeguatamente rappresentativa, le concludo con un richiamo al pensiero di Ernesto Rossi, autentico e convinto europeista della primissima ora, padre della democrazia liberale, animo e spirito libero mai domo e sempre critico:
“La ‘via giusta’ non la so. So quello che nel particolare momento mi sembra giusto. E mi basta. Vada il mondo dove deve andare, mi trovi nella corrente o contro corrente, io posso ‘salvarmi l’anima’ solo prendendo quella strada che alla mia debole ragione appare relativamente migliore”.
Le certezze assolute, personalmente, le annovero in tutto quel che, sempre Rossi, definiva “aria fritta”.
Filed under: Politica Tagged: Democrazia, Elezioni, Ernesto Rossi, Sovranità Popolare