Dunque come conciliare la volontà del corpo di spalmarsi su morbidi prati erbosi o assolate spiagge, e la necessità della mente di rimanere operativa? Ecco una proposta estiva!Perché non affidarsi alla matematica? E non venitemi a dire che non c'entra con le vacanze: questo è anche il tema scelto per il 76° Carnevale della Matematica, ospitato da Maurizio Codogno (che è pure il curatore della collana di matematica divulgativa Altramatematica, di cui fa parte la "soluzione" al problema che stiamo discutendo)
Un libro, quindi. Qualcosa da portarsi sotto l'ombrellone, dentro lo zaino, in cima ad un rifugio e, se questo è il vostro genere, in città, in campagna, in bicicletta. Basta un lettore di ebook e, alla disperata, uno smartphone: il cibo per la mente occupa meno spazio del sacrosanto spuntino in alta quota o della "parmigiana" domenicale sulla spiaggia. Provare per credere: e poi, naturalmente, perché fermarsi qui? La collana ha numerose "perle" da conoscere e collezionare!
"Racconti Matematici", ve lo presento con un'anteprima esclusiva. Questo è l'incipit di una delle due storie che costituiscono il libro, edito anche lui da 40K nella collana Altramatematica. Il tutto nasce da una semplice considerazione: c’è ancora qualcuno, là fuori, che pensa alla matematica come a qualcosa di arido: paradossi astrusi, noiosi tecnicismi, che nulla hanno a che fare con la fantasia o la creatività.E poi ci sono coloro, e son parecchi, che hanno sbirciato almeno un po’, dietro le file compatte di teoremi ed equazioni, facendosi strada fra i numeri come se fossero le fronde di un bosco incantato.Questo libro è dedicato ad entrambe le tipologie di lettori; comunque la pensino sulla matematica, fra queste pagine potranno scoprirne almeno uno, degli infiniti mondi che racchiude.
“Dio possiede un Libro transfinito che contiene tutti i teoremi e le loro migliori dimostrazioni. Non è necessario credere in Dio, ma è necessario credere nell'esistenza del Libro” Paul Erdős
“Heard melodies are sweet, but those unheardare sweeter”John Keats
Geremia “Nantucket” sputò i frammenti di cattivo tabacco che aveva fra i denti sull’assito fradicio del ponte. Il cielo, grigio come le penne di una pernice, si rifletteva sul mare agitato, rendendolo ancor più cupo di quanto già non facesse luce incerta vicino al circolo polare artico, che ormai incombeva all’orizzonte. Il fischio furioso della bora tendeva il sartiame e strappava sinistri scricchiolii dal legno, curvando il massiccio albero dello sloop come un fuscello di betulla. Nonostante gli spruzzi di acqua gelata, nel corso dell’ultima ora il passeggero non si era mosso di un palmo. Rimaneva lì, appeso al corrimano di babordo, bagnato più di una foca su uno scoglio, a guardare il profilo frastagliato degli isolotti che proteggevano l’accesso alla rada di Bodo come i bastioni scuri di una fortezza.Una breve serie di rintocchi della campana, rapidi e sincopati, scintillarono nell’aria e il marinaio si scosse. Lanciò un vistoso gesto scaramantico alla volta dell’uomo, lasciandolo alla sua follia, e si avviò verso poppa, scuotendo pensosamente il capo. L’aveva detto, lui, che non portava bene avere un tipo come quello a bordo. L’avevano detto tutti.
“Gradisce ancora un po’ di acquavite, professor Talbot?”Il capitano Finn teneva la bottiglia sospesa per il collo, alta sopra il tavolo, dondolando il suo lungo braccio muscoloso con fare allegro e giovale. Aveva i tratti più tipici della sua gente, a cominciare dai capelli, rossi e ribelli, che spuntavano dall’orlo di un pesante copricapo di lana.“No, credo di no, capitano. Penso di aver bevuto abbastanza per oggi” rispose il commensale, considerevolmente più anziano ed esile, dondolando il corpo sottile nel tentativo di trovare una posizione comoda sullo sgabello.Lo studioso si guardò rapidamente intorno: all’interno della sala principale della locanda erano ospitati non più di una decina di tavolacci, con le assi deturpate dal lavorio dei coltelli di generazioni di marinai. Un mastodontico lucerniere in osso di balena e la grottesca sagoma di uno scheletro di tonno si contendevano lo spazio del soffitto, ondeggiando pericolosamente sulle teste dei pochi avventori. Alle pareti lunghe scaffalature in legno chiaro, piene all’inverosimile di ogni genere di merci e paccottiglia, completavano l’arredamento del locale. “Come vuole” concluse il massiccio irlandese, alzando le spalle. Soppesò la bottiglia e con un gesto deciso ne rovesciò il contenuto nel proprio bicchiere, svuotandola completamente.“Non c’è posto per una sola goccia d’alcol nella stiva del Greenleaf” disse, come per giustificarsi, mentre prosciugava l’acquavite in un lungo sorso ininterrotto. “E non ne troveremo certamente a buon mercato, su a Spitzberger, o in qualunque altro punto delle Svalbard”
Per alcuni minuti, durante i quali il lupo di mare fu impegnato a spolpare i resti del suo arrosto, nessuno parlò nella piccola sala.“Il clima è sempre così rigido, in questa stagione?” azzardò il professore all’improvviso, sentendo il desiderio di riempire il silenzio. Nonostante le settimane trascorse a stretto contatto con l’equipaggio, nel lungo viaggio da Rotterdam, era ancora incerto sugli argomenti più appropriati nell’ambiente marinaresco, e la sua propensione anglosassone per la conversazione sul tempo aveva avuto la meglio.“Rigido?” ripeté l’altro, sollevando per un momento lo sguardo dal suo piatto. “Se si riferisce alla brezza tesa di oggi, può considerarla più che altro l’anticipo dell’estate. Siamo ormai in primavera avanzata; le giornate si allungano in maniera impressionante, già a questa latitudine, e lo faranno sempre di più proseguendo verso nord.”“L’ho notato. Piuttosto disorientante, non trova?”“Vedrà cosa accade oltre il circolo polare. Distinguere il giorno dalla notte è praticamente impossibile”“Come riuscite a dormire?”“Oh, ci si abitua, dopo un po’ di tempo. Ci si abitua a tutto”
Il capitano Finn addentò un grosso pezzo di pane scuro, che aveva intinto nella pentola contenente i resti del comune pasto. Masticò con evidente piacere, inseguendo i propri pensieri. Dopo un po’, aggiunse: “Sono altre, le cose che tolgono il sonno, da quelle parti”
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Appendice matematica di Maurizio Codogno
Il diciottesimo secolo è quello in cui finalmente i matematici si liberano dalle catene degli antichi greci e iniziano ad usare l’infinito con disinvoltura, anche se non sempre in modo formalmente corretto: per avere una vera teoria dell’infinito occorre infatti aspettare la metà del diciannovesimo secolo. Dopo i primi e forse ingenui tentativi di Bonaventura Cavalieri e le osservazioni di Fermat acute ma ancora parziali, la fine del Seicento segna una nuova stagione, con i Principia Mathematica di Newton e il Nova Methodus pro maximis et minimis di Leibniz che sono le prime vere opere sul calcolo infinitesimale. Newton e Leibniz hanno però fatto nascere l’analisi matematica senza troppo preoccuparsi delle illogicità nei loro procedimenti: in fin dei conti, ragionavano, i risultati finali risultano corretti e tanto basti. Ma molti, come il vescovo e filosofo George Berkeley e il protagonista di questo racconto professor Talbot, si sentivano a disagio con questi valori che erano uguali o diversi da zero a seconda di quello che serviva al momento. Fu Eulero il primo a usare un formalismo algebrico che, pur non essendo ancora completamente a prova di paradossi, aiutò i matematici nella comprensione e nell’uso degli infinitesimi.