Sono film che rappresentano perfettamente quella volontà di scontro e ribellismo insita nel periodo della controcultura americana: strade, motociclette, paesaggi mozzafiato, automobili sfreccianti e uomini con l'ossessione di una sfida da vincere (o perdere, purché col piglio epico) e di spazi da conquistare. Uomini persi in deserti o braccati dalla polizia, disposti a giocarsi tutto per smarcare le lontananze ed arrivare all'estremo di un orizzonte che sembra raggiungibile (senza esserlo in realtà mai).
Il protagonista del film di Sarafian, un ex pilota di cui conosciamo solo il cognome, Kowalski, varca a bordo di una Dodge Challenger del '70 i confini del Colorado via Nevada, diretto in California, mentre la polizia di tre stati lo insegue per una semplice infrazione sul livello di velocità. E improvvisamente, mentre una piccola radio di provincia comincia a decantarne le gesta, diventa un eroe e un simbolo. Kowalski semina le autorità sprintando con la sua macchina truccata, buttandoli fuoristrada o infilandosi nel deserto, tra santoni e hippies drogati e un sole spaccapietre che il regista illumina con grazia divina (la fotografia è del mitico John Alonzo). E se infatti è invecchiata male l'ideologia dell'amore libero e della giovinezza come tana-libera-tutti che percorre praticamente ogni film del gruppo, ciò che resta ancora urgente, sublime e decisamente contemporaneo in Punto Zero è proprio la indubbia capacità di far «respirare» allo spettatore gli spazi: Sarafian riprende lo smisurato srotolasi della wilderness a stelle e strisce con maestria documentaristica, rendendo onore alla magnificenza del paesaggio americano.