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Sulle tracce di Matusalemme. Immortalismo, longevismo, bioetica. Di Sergio Bartolommei

Creato il 23 giugno 2010 da Estropico
E' stato gia' segnalato da David, nei commenti al mio Umanisti mortalisti, ed e' vecchio di due anni, ma l'articolo di Bartolommei merita un post a se'. Queste le conclusioni (ma si consiglia la lettura integrale):
La morte è un danno la cui entità va messa in relazione col numero e la varietà di opportunità di gratificazioni che preclude: più la vita è interrotta anzitempo, più il danno è maggiore. Si è ricordato al punto 2 di questo articolo che il 75% delle morti che si verificano ogni giorno nel mondo ha per causa i danni accumulati con la senescenza. Occorre chiedersi se questo sia un dato naturale e immodificabile, oppure se vi sia la possibilità di estendere anche considerevolmente la durata della vita umana e ridurre significativamente il numero di queste morti. Nel primo caso non resterebbe che rassegnarsi di fronte a una realtà indisponibile, impegnandosi tutt’al più, e certo più di quanto non sia accaduto finora, ad accrescere i mezzi e le modalità per favorire morti più dolci, o meno dolorose e traumatiche, di quelle che continuano a verificarsi quotidianamente nel mondo. Nel secondo caso occorrerebbe invece chiedersi se non sia un obbligo morale fare il possibile per allungare la vita e rallentare la senescenza. Le obiezioni di principio qui esaminate, con le quali si cerca di fissare dei limiti preventivi agli obiettivi che in materia sarebbe lecito perseguire, non riescono ad entrare nel merito di questa discussione. Sono tutte ispirate al timore che con le nuove tecnologie biomolecolari di allungamento della vita si possa trasformare l’immagine tradizionale di cosa sia “essere umani”. Una definizione non vacua della “natura umana” – ammesso sia utile tentarla - dovrebbe scaturire da una ricognizione empirica delle nuove possibilità tecniche e scientifiche di riprogrammazione del vivente. Al contrario le obiezioni di principio definiscono “natura umana” una certa configurazione storica e morfologica di quest’ultima e stabiliscono come criterio discriminante per l’accettazione delle nuove scoperte e conoscenze che esse siano conformi alla definizione data. Questa immagine prefissata e essaenzialistica impedisce però di cogliere a nostro parere gli aspetti moralmente meno controversi del progetto di allungamento delle vite umane. Ove si prescinda dagli aspetti di più spiccata visionarietà utopica, è difficile negare al neo-longevismo la ragionevolezza della sua sfida ad alcune delle certezze più accreditate in fatto di invecchiamento e morte degli umani. Aubrey de Grey ha scritto che un “argomento generale per cui siamo moralmente obbligati a rimandare l’invecchiamento il più possibile, al più presto possibile, è quello che si basa sul semplice senso delle proporzioni. Non c’è nessuna differenza tra salvare la vita e prolungare la vita, perché in fondo che cosa significa salvare la vita se non dare a una persona la possibilità di vivere più a lungo di quanto sarebbe altrimenti vissuta?”. Se questo è, come crediamo, un argomento in gran parte razionalmente fondato, ritardare la senescenza, in quanto mezzo per prevenire uscite anticipate e involontarie da vite degne di essere vissute, appare un atto obbligatorio e non supererogatorio. Viceversa, liquidare il longevismo come ingenua fantasia e la “libertà morfologica” come arrogante pretesa è un modo di legittimare ingiustificate negligenze, mancare di prevenire interruzioni inutilmente premature della vita.

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