di Augusto Benemeglio
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- Like a dream – © Gianfranco Budano
Eccomi ancora una volta a Lecce, con Mimmo Anteri, sulle vie del barocco, dove un tempo fiorivano i limoni e le cattedrali, “case del sole e di Dio”. Un barocco arioso, elegante, vero godimento per gli occhi — dice il maestro Anteri — ma anche la gente salentina è formidabile, generosa, ti accoglie a braccia aperte, è pronta a mostrarti tutto quello che ha. E’ partecipativa, generosa.
Se è vero che ciascuno di noi emana una propria musica, sulle facce della gente leccese tu puoi ascoltare la sinfonia del barocco, che si spande per tutta la città, da porta Rudiae alla magnifica Piazza Sant’Oronzo, dal Palazzo dei Celestini, a Santa Croce, con la facciata che è una teoria di figure ricche di valori simbolici, un vero e proprio trattato applicato alla pietra; e qui le note si fanno corteo di decorazioni architettoniche che esplodono come dalle canne di un grande immenso organo di maggio dalle chiese, case e balconi, dagli stemmi e portali, un effluvio di fiori, frutta, nastri svolazzanti, colonne tortili, cornici fastose, balaustre a trafori, frontoni ricurvi, putti e mascheroni con la pietra leccese, calda e dorata.
Lecce è tutta una sinfonia barocca, ma il barocco leccese è molto diverso da quello francese, o da quello spagnolo arabizzante. E’ il prodotto di artigiani e artisti pieni di fantasia, architetti esuberanti, come lo Zimbalo, che avevano però il senso vivo della geometria e il gusto classico rinascimentale, conoscevano Piero della Francesca e la Divina Proporzione. S’avverte una pulizia mentale che ingentilisce lo stile.
In queste opere c’è una vera e propria raffinatezza spirituale che diventa anche finezza di comportamenti umani. Io credo che Lecce sia unica nel suo genere, certo è anche greca, bizantina, è anche normanna, araba, moresca, spagnola, borbonica, ma è barocca la sua anima più autentica, che si riflette nei suoi palazzi e chiese, un’elegia d’angeli, santi e frutti di pietra, una sinfonia di fregi, pinnacoli, cariatidi che fanno coro su un portale o un balcone, e ti lasciano costantemente meravigliato.
E senti, dentro di te, l’odore del miele, squarci d’infanzia lontana che ti richiamano le splendide rosacee melegrane di Ercole Pignatelli, o la musica di Boccherini, Tartini, Corelli, Scarlatti, che scandisce il suo ritmo arioso, largo per le vie di Lecce. Ma tra i tanti illustri visitatori entusiasti della capitale del Salento — da Federico II a Goethe, da Valery a Papa Giovanni Paolo II — c’è stato anche qualcuno che ha detto a chiare note che il barocco leccese è il parto di un’anima morbosa e cervellotica, e che la regione salentina è attraversata da linee di follia, cose che ben esprimono certi suoi geniacci come Vanini, Comi, Ciardo, Bodini, Pagano, Barbieri, Toma, Verri, Eugenio Barba e, da ultimo, il grande Carmelo Bene.
“In fondo il barocco — ha detto Cotroneo, che ha messo radici a Otranto — “non è che la continuazione di ciò che hanno lasciato gli arabi, il contrasto fra la sensazione profonda di pace e il posto dove aleggiano le passioni”. Del resto i primi a parlarne in negativo erano stati artisti salentini come Suppressa e Bodini che scrive:
“Lecce è una città falsa, immota, ferma al seicento eterno, categoria del barocco, dove l’ozio e il capriccio ricamarono la sua tenera pietra e dal puro invisibile nacquero i colori e cose avvertite ed espresse solo per un allarme preistorico: la lucertola in fuga contro l’enorme cosa immobile del cielo pitagorico, nervature di dinosauri affioranti dal velo di terra, terra del nulla, della nudità, delle nuvole, dove i tarantolati passeggiano sulle volte delle assurde chiese insieme agli angeli”
e come Ugo Ercole d’Andrea, che rafforza quel concetto, chiamando la sua città
“Lecce la morta, che ama solo lo sfavillìo degli ori barocchi e inganna perfino la morte”
o lo stesso Carmelo Bene che dichiara essere il Salento una specie di
“bordello di culture. Qui son passati tutti, per secoli e secoli, ciascuno lasciando il proprio retaggio, greci, romani, bizantini,normanni, arabi, spagnoli, ecc. mai curandosi di chi c’era Questa è una terra votata alla morte. E’ nel suo destino tragico, anzi grottesco, perché è una morte arcadica, barocca”.
E anche l’ammiraglio Renato Fadda, un sardo qui trapiantato che ammira molto l’intelligenza dei salentini, dice chiaramente: non ci fossilizziamo con il barocco. Qui tutto è barocco, c’è il premio, la regione, la geografia, la via, anzi le vie: ragazzi, guardiamo oltre. Noi veniamo dal mondo greco, nel nostro DNA c’è (ci dovrebbe essere) l’amore per la cultura, il teatro, la filosofia, l’arte, la bellezza, invece poniamo tutto al secondo posto rispetto al benessere economico, questa è la verità.
Detto questo, non posso fare a meno di confermare, come ha detto qualcuno, che Lecce è la più bella città del meridione. Ma forse per recuperare quella bellezza, l’incanto e il senso del fascino e della magìa che emana la città salentina, dobbiamo tornare ai poeti forestieri, a Marino Moretti che venne a Lecce tanti anni per il Giro d’Italia, evento che si è ripetuto poco tempo fa. A fine corsa, quando i corridori, stanchi, si ritirarono nei loro alberghi e lui, come giornalista culturale, poté finalmente visitare un po’ la città, scrisse:
”Quando scende la notte Lecce riluce come una rosa d’argento.Noi credevamo di arrivare in una città e siamo entrati in un fiore, per essere più precisi in una rosa. Così appare Lecce nel cerchio antico delle mura corrose e violente che chiudono morbidi intrighi di strade, tra case chiare disposti a larghi cerchi intorno al suo cuore di marmo. Bianca sotto la luce siderale, silenziosa e raccolta, Lecce è una rosa d’argento. A rivederci, città bionda e gentile, porta d’Oriente, rosa d’Italia,città linda come un salotto, dai palazzi ricamati, le chiese come giardini e gli alberi come castelli”.