Sullo scrivere bene e altre considerazioni

Da Marcofre

Domanda semplice, forse anche scema: cosa fare della realtà? Sto parlando della realtà nella narrativa, vale a dire di quell’insieme di eventi che il narratore sceglie e racconta.
Come raccontarli? In modo concreto, realistico direbbe Raymond Carver; su questo siamo quasi tutti d’accordo. Quando si inizia a fare sul serio, e si mettono al lavoro i sensi, ci si guarda attorno e si osserva con tutto l’essere quello che capita.

Ma quello che capita, deve essere reso così com’è? Oppure deve essere manipolato, modificato? E quali sono le regole che dovranno preoccuparsi di questa manipolazione?
Mi rendo conto che ho fatto troppe domande, ma solo a prima vista può apparire fuori argomento.
In realtà sto cercando di capire come diavolo si può riuscire a osservare la realtà (le sue sfumature, il male e il bene che contiene), senza che poi il risultato non sia consolatorio, o sdolcinato. Bensì credibile.

Immagino che il porsi questo genere di questioni faccia piazza pulita di tanta superficialità o retorica. Per capirci: tutta quella roba che reclama una narrativa “utile”, oppure che rilassi o celebri in qualche modo certe idee, o addirittura una presunta superiorità del Paese sugli altri. Che poi esista e abbia pieno diritto di cittadinanza, non ci trovo nulla di male. Però per me, la letteratura è un’altra faccenda.

La letteratura deve (lo riscrivo: deve) avere a che fare con l’arte. So che alcuni sono già lì pronti a scattare con la domanda da 1 milione di euro: “Che cos’è l’arte?”

Oppure:

“Suvvia, qui si vuole solo ammazzare un po’ di tempo: che ce ne facciamo dell’arte?”.

Una domanda, a volte riserva delle belle sorprese perché ne innesca delle altre forse non interessanti, ma curiose.

Per me l’arte è quello che mi allontana dalla scimmia che ero, e che molti (la maggioranza) bramano di essere e di restare anche adesso.

Ha un altro pregio l’obiettivo di confezionare qualcosa di artistico, capace cioè di essere efficace e di valore. L’arte infatti impone la disciplina, quindi eviterà gli eccessi.

Evitare gli eccessi non vuol dire che in una storia non ci devono essere “Cazzo” o roba del genere. Sono costretto a scrivere queste ovvietà perché molti pensano che la scrittura debba essere pulita: solo così abbiamo arte.
Però il David di Michelangelo è nudo. Meglio non parlare della Cappella Sistina; e che dire di “Delitto e Castigo” dove si verificano ben due omicidi?

Valore ed efficacia non escludono affatto dal proprio orizzonte l’orrore o il male. Occorre guardarlo perché è un ingrediente della realtà, e ignorarlo sarebbe tradire l’impegno che si contrae con il lettore.
Non bisogna celebrarlo perché anche in quel caso si tradirebbe la relazione che stabiliamo con chi legge.

Come si riesce a restare in equilibrio senza eccedere, in un modo o nell’altro?

Dal basso della mia esperienza, sono necessarie molte letture, e piantarsi nel cranio l’idea che si deve scrivere bene. Probabilmente, se ci si “allena” a questa idea, si comincia a frequentare l’arte. Perché scrivere bene non significa infilare i congiuntivi dove vanno i congiuntivi, eccetera eccetera. Anche questo si capisce.

Scrivere bene vuol dire rispettare il lettore, ma soprattutto avere tutte le cure e le attenzioni possibili per quello che si racconta. E se si deve scegliere, la scelta giusta deve essere per la storia, non per il lettore.

Ecco perché abbiamo opere come “Moby Dick” che sono apprezzate solo dopo decenni, quando l’autore è defunto. Davvero si crede che Melville non fosse consapevole di cosa stesse combinando? Sapeva che il pubblico non desiderava quello, ma viene il momento, quando si è a tu per tu con la pagina, e si è da soli, che diventa necessaria compiere una scelta. E questa deve essere per l’arte, quindi entreremo in rotta di collisione con i lettori. Non perché è bello scrivere per pochi: ma perché bisogna scrivere bene.


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