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In un’isola a largo delle coste USA gli zombi continuano a camminare sulla terra: due famiglie contrapposte (i “progressisti” che vorrebbero abbattere tutti i non-morti ed i “conservatori” che invece vorrebbero tenerli in vita ad oltranza) lottano per il dominio assoluto, fin quando il capo di una delle due viene espulso. Incontra poco dopo un gruppo di sopravvissuti (molti dei quali militari), e si organizza per tornare nella propria terra assieme a loro…
In breve. Lavoro di discreta fattura vagamente fiacco, con scarso mordente e qualche momento un po’ più intenso. Per quanto girato con la solita perizia registica (e vantando un finale piuttosto suggestivo), rischia di non lasciare nulla di nuovo o realmente memorabile allo spettatore, dato che il tema “morti viventi” è diventato piuttosto “castrante” anche per un Maestro come Romero. Forse è solo questione di giustificabile stanchezza, in ogni caso non è questo il modo migliore per conoscere il regista e le sue doti.
“L’Isola dei Sopravvissuti” è un horror debitore della scuola fondata inconsciamente dal Maestro americano stesso, frammisto di elementi tipici dei suoi trascorsi ma che strizza l’occhio alle dinamiche di un genere scomparso (o quasi) dalla circolazione: il western. Ambientare la storia su un’isola in cui l’uomo sta cercando di rifondare la società tra ranch, mandriani e cavalli sembrava certamente una buona idea per rifondare un genere piuttosto statico di per sè: anche l’introduzione dei vari personaggi (classici “tipi” romeriani, nessuno dei quali è davvero un “eroe” – se ci fosse bisogno di dirlo) è ben congegnata, così come la contrapposizione tra mondi socialmente in conflitto (miitari ravveduti, scontri generazionali tra genitori e figli, bigottismo e sessismo). Un confronto che trova il suo massimo sfogo nella lotta tra i due rivali di sempre: Capitan O’Flynn contro Seamus Muldoon, non semplicemente “il buono contro il cattivo” bensì due patriarchi che esprimono, in modo differente, le proprie idee ottuse rifiutando qualsiasi confronto. Un confronto nichilista, a ben vedere, condotto dal regista sulla falsariga di quello di “Jena” Plinsken nel celebre “Fuga da Los Angeles“: nessuno è migliore di nessun altro, e le lusinghe del Potere riescono sempre a rendere impossibile qualsiasi miglioramento sociale. Il pessimismo romeriano, pero’, uscirà fuori in modo nitido soltanto nelle sequenze finali, costruendo così delle aspettative che vengono soddisfatte soltanto in parte, lasciando lo spettatore con la sensazione di essersi persi qualcosa. Quello che non funziona – o risulta essere non troppo fluente – è l’impianto completo, troppo condizionato dal “già visto” e soprattutto dal “deve essere così perchè si tratta di un film di Romero” (tanto che l’estetica zombi, forse per la prima volta in assoluto nella carriera del regista, sembra più un limite che un vanto). Per il resto gli zombi continuano ad andarsene in giro in cerca di carne umana, con la differenza che l’uomo riesce a controllarli con relativa facilità, trattandoli come semplici animali domestici e quasi come fosse “ordinaria amministrazione”. Bisognerà poi scoprire se questa situazione sia destinata a rimanere uguale fino alla fine, mentre l’approccio scelto era l’unico realmente possibile per rimanere credibili ed evitare di ripetere cose già dette (il masterpiece “Zombi” del 1979 non viene citato neanche di striscio – credo non a caso – al contrario de “Il giorno degli zombi“, molto meno noto ed estremamente debitore di Survival). Poco da aggiungere sul fatto che i morti viventi ciondolino meccanicamente e senz’anima da una parte all’altra, ripetendo i gesti che hanno caratterizzato la propria vita (lavorare a mo’ di catena di montaggio, andare a cavallo, farsi guerra in nome di ideologie ottusamente contrapposte) e che li (ri)definisce come freddi automi di un mondo che, come sempre, li discrimina. Se il finale lascia intravedere un messaggio tanto duro quanto non proprio sconvolgente (c’è chi ucciderebbe i propri consanguinei in nome della “ragione cieca” di un’ideologia), il film vive di alti e bassi, tra momenti di scarsa presa (soprattutto nella prima mezz’ora) e impennate improvvise che, bisogna riconoscere, ancora riescono brevemente a sorprendere. Paragonare a qualsiasi livello – registico, stilistico, narrativo o anche solo visuale – “Survival of the Dead” con Zombi (1979), La notte dei morti viventi (1968), Il giorno degli zombi (1986) o Diary of the dead (2004) dovrebbe essere considerato un insulto al buonsenso, e questo non solo perchè nel frattempo sono trascorsi troppi anni – da cinque a quarantaquattro, tanto per capirci – ma anche perchè un’artista libero dai compromessi, politicamente scorretto e fuori dagli schemi come George Romero deve per forza sentirsi libero, alla sua veneranda età e col curriculum che si ritrova, di fare quello che gli pare (o quasi). Ovviamente ci sono dei limiti a tutto, e qui nessuno si augura che Romero cambi genere o altre assurdità, ma non dobbiamo – nella foga di rimpiangere un passato che non esiste più – neanche perdere di vista la libertà espressiva di cui si è sempre fatto portatore, spesso a costo di perdere i diritti delle sue stesse opere o venire stroncato a man bassa perchè troppo intellettualoide, troppo splatter o troppo-qualsiasi-cosa. Essere liberi vuol dire, a mio avviso, essere fuori dagli schemi – fino ad arrivare all’apparente contraddizione di deludere i fan, che si aspetterebbero repliche del passato praticamente improponibili. Qui il vero problema, in realtà, è lo scarso mordente del lavoro in sè, nonostante le discrete idee di fondo e qualche momento sopra le righe (piccoli sprazzi che non fanno un buon film, purtroppo). Lo criticherei aspramente se avesse voluto girato un ipotetico Venerdì 13 – Parte 10,001 o un clone di Saw – L’enigmista, ma se rimane nel campo degli zombi non posso che togliermi simbolicamente il cappello: questo non fa di “Survival of the Dead” un capolavoro (tantomeno il modo più adatto per avvicinarsi al suo cinema), ma qualcosa di buono si è (solo) intravisto anche qui. Restino allora valide le considerazioni sui limiti, i difetti e la scarsa compattezza di pellicole del genere: quantomeno, pero’, non ci tolgano il piacere di farci intrattenere (e riflettere) anche con film di questo tipo, che si assestano su una sufficenza solida e possiedono in fin dei conti i pregi e difetti tipici di ogni b-movie moderno. Certo il precedente Diary of the dead, a confronto, è stato un esperimento molto meglio riusciuto, e fa quasi impressione pensare che gli italiani Boni & Ristori abbiamo prodotto il proprio Eaters (film di zombi post-apocalittico del 2011) sfruttando un budget, un’esperienza ed un cast di ben altro livello riuscendo, in certi momenti, addirittura a superare qualitativamente il lavoro in questione. Un film che alla fine solo i fan più accaniti guarderanno con interesse, e molto pochi – come sempre, in fondo – riusciranno ad apprezzare appieno.