Susan Abulhawa ha scritto un romanzo che racconta con pacatezza e sensibilità la storia di quattro generazioni di palestinesi costretti a lasciare la propria terra dopo la nascita dello Stato di Israele e vivere la triste condizione di “senza patria”. E la voce di Amal, la brillante nipotina del patriarca della famiglia Abuleya a raccontarci l’abbandono della casa ancestrale di Ein Hod, nel 1948, per il campo profughi di Jenin, e la tragedia dei suoi fratelli che si ritrovano a combattere sui fronti opposti. Amal ci racconta la sua storia, l’infanzia, gli amori, i lutti, il matrimonio, la maternità e, infine, il bisogno di condividere tutto quello che ha vissuto con sua figlia, il suo amore più grande. La storia della Palestina, intrecciata alle vicende di una famiglia che diventa simbolo delle famiglie palestinesi, si snoda nell’arco di quasi sessant’anni, attraverso gli episodi che hanno segnato la nascita di uno stato e la fine di un altro: la tragedia dell’esilio, la guerra, la perdita della terra e degli affetti, la vita nei campi profughi, da rifugiati che vivono “sospesi” in attesa di una svolta. Susan Abulhawa non cerca i colpevoli tra gli israeliani, che anzi guarda con empatia, rispetto e consapevolezza, perché sa chi sono i veri artefici di quella sofferenza umana, racconta invece la storia di tante vittime capaci di andare avanti solo grazie all’amore.
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