Sviluppo infrastrutturale in Africa e l’African Development Bank

Creato il 18 marzo 2015 da Cafeafrica @cafeafrica_blog

Molta acqua è passata sotto i ponti dal 13 maggio 2000, giorno in cui il settimanale The Economist dedicava una Cover Story all’Africa. Una combinazione micidiale di conflitti locali, guerre civili, corruzione e catastrofi naturali suggeriva al settimanale inglese una copertina impietosa, nella quale l’Africa veniva definita come “The Hopeless Continent”.

Poco più che 10 anni dopo, il 3 dicembre 2011, la copertina dell’Economist raccontava una storia completamente diversa: non si parlava più dell’Africa come del continente senza speranza, ma come del continente della speranza: “Africa Rising”.

Tutto ciò era rappresentato graficamente dall’immagine di un bambino che corre con un aquilone multicolore con la configurazione del continente africano. L’immagine catturava tre caratteristiche fondamentali della realtà socio-economica africana: la bassa età media della popolazione, la diversità – simboleggiata dai colori dell’aquilone – e il decollo economico. Ma cosa è veramente successo nella prima decade del millennio? La risposta è: moltissimo. Per usare un’espressione forse abusata, c’è stato un cambiamento epocale, frutto non solo di fenomeni economici ma anche politici e sociali.

Un rapporto della Banca Mondiale del 2011 segnalava come l’Africa sembrasse essere alla vigilia di un decollo economico, così come la Cina negli anni 80 e l’India negli anni 90. A supporto delle proprie previsioni, il rapporto evidenziava una serie di fattori chiave:

  • L’Africa dispone del 60% della terra arabile del pianeta ancora disponibile per coltivazione;
  • In Africa le città con più di un milione di abitanti sono il doppio che negli Stati Uniti;
  • Il Continente è popolato prevalentemente da giovani;
  • L’Africa possiede la metà delle riserve mondiali di oro e un terzo di quelle di diamanti;
  • L’Africa abbonda di ogni sorta di riserve naturali;
  • Le attività di esplorazione petrolifera scoprono ogni anno nuovi giacimenti;
  • L’industria del turismo è adesso in grado di fornire servizi di qualità a prezzi allo stesso tempio competitivi a livello internazionale e remunerativi per gli operatori;
  • La telefonia cellulare – con più di 600 milioni di utenti – può contare su un mercato più vasto dell’Europa o degli Stati Uniti;
  • I processi di alternanza democratica stanno avvenendo in modo maggiormente ordinato che in passato – anche se ci sono ancora margini di miglioramento;
  • L’opposizione politica è fatta in modo più sofisticato e costruttivo;
  • Sta emergendo un significativo ceto borghese africano, fatto da professionisti che nulla hanno da invidiare ai propri omologhi in Europa o negli Stati Uniti.

E se ne potrebbero menzionare almeno altrettanti. Un fenomeno rilevantissimo, che purtroppo rischia di non essere percepito a fondo nel nostro paese, a volte ricco di stereotipi e pregiudizi e povero di profondità di analisi e di iniziativa.

Il peso dell’economia Africana

Ma quanto “pesa” l’economia africana? Di che ordini di grandezza stiamo parlando? Misurare il PIL aggregato a livello continentale non è affatto un esercizio facile, a causa della mancanza di statistiche omogenee e dell’impossibilità di depurare le cifre dai flussi di esportazione e importazione all’interno del Continente. Un ulteriore problema è stimare la dimensione dell’economia “informale”, che assume in Africa una rilevanza ben maggiore di quanto non avvenga in paesi anche non particolarmente disciplinati dal punto di vista fiscale come il nostro. Esiste infine un problema che potremmo definire “classificatorio”. Al di fuori della African Development Bank, gli altri grandi organismi multilaterali non forniscono di norma dati aggregati a livello continentale, preferendo presentare dati separati per le tre principali sub-regioni: l’Africa Settentrionale, l’Africa Sub-Sahariana e l’Africa Australe.

La complicazione nasce dal fatto che i dati relativi all’Africa Settentrionale sono spesso aggregati con quelli relativi al Medio Oriente (formando la cosiddetta regione MENA – Middle East and North Africa). Ciononostante, anche se prendiamo le statistiche con beneficio d’inventario e ci posizioniamo sul versante più conservativo possibile, possiamo tranquillamente affermare che il PIL aggregato a livello continentale ha abbondantemente superato i duemila miliardi di dollari. Se prendiamo i dati a prezzi costanti 2012, la forchetta delle stime sul PIL aggregato oscilla tra 2.800 miliardi di dollari e 3.700 miliardi di dollari.

Questo per quanto riguarda il dato statico. Ma il quadro diventa ancora più interessante quando passiamo all’analisi dinamica, andando ad esaminare i tassi di crescita.

Il diagramma – pubblicato sul bilancio 2013 dell’African Development Bank – mostra i tassi di crescita evidenziati dal Continente negli ultimi 12 anni. A livello aggregato, siamo di fronte ad una crescita media annua in termini reali ben superiore al 4%, nonostante il rallentamento riscontrato nell’Africa Settentrionale nel 2011 a causa degli eventi della cosiddetta “Primavera Araba”. Quanto all’altra sub-regione (l’Africa Sub-Sahariana, che in questa classificazione include l’Africa Australe), il dinamismo e la resilienza del comparto sono veramente rimarcabili.

Questi numeri sono tanto più interessanti – verrebbe da dire ineludibili – se solo si confrontano con la stagnazione che è stata invece riscontrata nei paesi cosiddetti sviluppati all’indomani della crisi finanziaria del 2008. È quindi innegabile che negli ultimi 10/15 anni l’Africa abbia fatto enormi progressi sulla via dello sviluppo economico. Il dibattito infatti verte adesso non più sul “quantum” dello sviluppo, ma piuttosto sulla sua sostenibilità e sulla sua “inclusività” – vale a dire, la misura in cui i benefici della crescita economica sono distribuiti (e quindi percepiti) tra le varie classi sociali. Il problema è di evitare che questa spettacolare crescita economica lasci indietro significativi strati sociali – problema analizzato mirabilmente da Paul Collier (ex Chief Economist della Banca Mondiale) nel suo libro intitolato, con immagine eloquente, “The bottom billion” (una allusione a quel miliardo circa di persone che ancora adesso nel nostro pianeta vivono al di sotto della soglia della povertà).

È un dibattito animato e interessante, sul quale – e a giusto titolo – la comunità internazionale sta dedicando moltissima attenzione. Ma probabilmente esula dal contesto di questo articolo, che non ha ambizione di essere esaustivo e si propone semplicemente di trasmettere a chi legge la sensazione di quanto possa essere interessate lavorare ed investire in Africa in questo momento storico.

Infrastrutture, sviluppo economico e “costi del non fare”

Il quadro presentato nel paragrafo precedente è senza dubbio positivo. Ma ovviamente non è tutto oro quello che luccica. Per cogliere le grandi opportunità di affari che indubbiamente l’Africa offrirà nei prossimi venti/trenta anni bisognerà essere in grado di confrontare due evidentissimi problemi.

  • Il primo è il “business climate”: instabilità politica, corruzione, mancanza di trasparenza e governance non ottimale dei processi sicuramente sono fattori che rischiano di inibire molti dei potenziali investitori nella regione. Anche se non si può non ammettere che su questi fronti si sono registrati evidenti progressi, allo stesso tempo bisogna ammettere che la strada è ancora lunga.
  • Il secondo problema – probabilmente un danno collaterale del primo – è l’insufficiente livello di infrastrutture del Continente.

Secondo l’Africa Infrastructure Diagnostic Report, la mancanza di infrastrutture di livello adeguato sta frenando la crescita economica del continente di almeno un 2% all’anno. Lo studio quantifica i bisogni di investimento in infrastrutture in 93,3 miliardi di dollari all’anno, rispetto ai quali la capacità corrente di spesa dei governi può solo fornire 45,3 miliardi di dollari all’anno – con un gap quindi di 48 miliardi di dollari all’anno. Il tema delle infrastrutture è quindi assolutamente fondamentale per l’Africa.

La buona notizia è che c’è piena consapevolezza di questo problema a livello politico. Con il supporto delle banche multilaterali – in primis l’African Development Bank e la Banca Mondiale – e organismi quali il Fondo Monetario e l’OCSE, in molti paesi sono in atto profondi processi di riforma volti a migliorare l’“Investment Climate” e l’assetto giuridico regolamentare dei partenariati pubblici-privati.

Particolarmente interessante è il caso della Nigeria – paese che ha visto la propria economia divenire recentemente quella di maggiori dimensioni del Continente, sopravanzando il Sudafrica (anche se potrebbe trattarsi di gloria effimera, vista la recente caduta dei prezzi del greggio, dai quali in larga parte le fortune dell’economia nigeriana dipendono). Allo scopo di permettere al Paese di dotarsi di una adeguata capacità produttiva di elettricità, la Nigeria ha profondamente riformato il settore elettrico attraverso un processo di “unbundling” e si sta rivolgendo al settore privato per attrarre l’investimento in nuovi impianti (o in riqualificazione e revamping di impianti esistenti) attraverso progetti promossi da Independent Power Producers (IPPs).

Per passare ad altre aree geografiche, anche il settore dei trasporti e della logistica si è dimostrato capace di sollecitare l’investimento privato, con una serie di progetti di successo quali l’autostrada urbana di Dakar (Senegal), il recentissimamente inaugurato ponte a pedaggio Henri Konan Bedié di Abidjan (Costa d’Avorio) e il porto di container di Lomé (Togo), solo per citarne alcuni.

Il ruolo delle banche multilaterali di sviluppo e degli operatori privati

Come si è visto nei paragrafi precedenti, molto è stato fatto in Africa, sicuramente di più rispetto a quella che è ancora la percezione dell’uomo della strada. Ma se rientriamo in un ambito tecnico, passando in rassegna la strumentazione finanziaria attualmente disponibile, dobbiamo porci una domanda fondamentale: che cosa ha impedito un maggiore afflusso di capitali nel continente africano?

La risposta è molto semplice: la percezione elevata del rischio d’impresa. Molti operatori economici percepiscono ancora il rischio d’impresa in Africa come estremamente elevato, soprattutto a causa dell’instabilità politica – è recente il caso del Burkina Faso, dove il Presidente Blaise Compaoré ha dovuto abbandonare precipitosamente il paese dopo 27 anni ininterrotti di governo. In questo quadro, la missione dell’African Development Bank – la principale banca multilaterale di sviluppo dell’Africa – è indirizzare i processi di riforma e cercare di catalizzare i flussi di investimento.

Quali sono gli strumenti finanziari disponibili in questo momento? In un contesto caratterizzato da tassi di interesse vicini allo zero, c’è una forte offerta potenziale di capitale che vorrebbe investire in Africa, a condizione di trovare adeguata mitigazione ad una percezione di rischio ancora elevata. È quindi importante che le banche multilaterali siano in grado di fornire degli strumenti finanziari a garanzia degli investimenti di questi operatori.

Gli operatori interessati non sono solo di banche, ma anche società di assicurazioni. Società eminentissime quali Munich Re hanno preso la decisione strategica di investire direttamente in iniziative infrastrutturali, anche in mercati emergenti, operando esattamente come le banche, vale a dire attraverso investimenti diretti (quindi non solo attraverso l’emissione di polizze assicurative). Cosa chiedono questi operatori alle banche multilaterali? Chiedono garanzie a copertura di alcuni rischi. Non necessariamente garanzie finanziarie a prima richiesta a copertura di tutti i rischi, ma garanzie a mitigazione di alcuni rischi specifici, come ad esempio il rischio politico – che spesso fa la differenza tra la capacità o meno di attrarre investimenti da parte di una data giurisdizione.

Che cosa si intende per “rischio politico”? Non soltanto rischio di espropriazione e nazionalizzazione. In tema di infrastrutture, una operazione di Partenariato Pubblico Privato si basa tipicamente su alcuni impegni presi dai Governi, come ad esempio applicare una formula tariffaria, oppure pagare dei sussidi. Queste obbligazioni contrattuali dei Governi – su cui si basa la bancabilità delle iniziative infrastrutturali – possono essere garantite dalle banche multilaterali, le quali hanno una relazione di lungo periodo con i governi della Regione e sono quindi in grado di esercitare su di loro un’azione di “moral suasion”.

L’African Development Bank – attraverso l’Initiative for Risk Mitigation in Africa (IRMA), un programma promosso e finanziato dalla Cooperazione Italiana con la collaborazione dell’OCSE – ha recentemente condotto una ricerca sui bisogni degli investitori privati in tema di copertura/mitigazione del rischio di fare business in Africa. I risultati dello studio mostrano che non solo esiste una significativa domanda per la copertura/mitigazione del rischio nel Continente, ma che questa domanda potenziale deve essere servita da un’ampia e articolata piattaforma di strumenti e servizi finanziari. La disponibilità di una strumentazione finanziaria adeguata è una condizione necessaria all’accelerazione dell’investimento privato nel Continente.

I principali elementi a sostegno della domanda di strumenti di mitigazione di rischio nel Continente includono non solo l’ancora elevata percezione dei rischi d’impresa in Africa ma anche il forte incremento di interesse degli investitori per la Regione – in qualche misura anche determinato dal contesto di bassi tassi di interessi su altre forme di investimento. La ricerca promossa dall’Initiative for Risk Mitigation in Africa della African Development Bank identifica tre categorie di rischio che necessitano copertura attraverso strumenti di mitigazione del rischio:

  1. Rischi di affari “generici”, non coperti da strumenti tradizionali di mitigazione dei rischi (per esempio carenza di infrastrutture, inadeguata tutela dei diritti, alta inflazione e alti tassi di interesse sulle monete locali);
  2. Rischi di affari propri dei settori di investimento in questione. Questi rischi includono la rarefazione di risorse finanziarie per sviluppare i progetti infrastrutturali con un incerto ritorno economico e i rischi legati alla scarsa efficacia e trasparenza dei processi di appalto per operazioni di partenariato pubblico-privato;
  3. Tipologie di rischio più tradizionale, di natura essenzialmente politica, quali confisca ed espropriazione, violenza politica, inconvertibilità e intrasferibilità di divise, modifiche discriminatorie nelle regolamentazioni settoriali.

Per completezza, devo segnalare che coperture su alcuni di questi rischi sono disponibili sul mercato degli assicuratori privati: la disponibilità di capitale associato all’emissione di polizze assicurative a garanzia di rischi politici presso i Lloyds di Londra è al momento assai elevata.

Bisogna infine segnalare la crescente apertura verso il Continente mostrata dalla nostra agenzia di credito all’esportazione SACE.

Sulla scorta delle risultanti della ricerca, l’African Developmen Bank sta cercando di rispondere a queste sfide attraverso un rafforzamento della propria piattaforma di strumenti di mitigazione dei rischi, cercando di riuscire ad andare oltre i più tradizionali strumenti di garanzia.

Quello che è certo è che un uso intelligente di questi strumenti di assicurazione e garanzia può facilitare gli afflussi di capitale verso progetti infrastrutturali in Africa e accelerare i processi di sviluppo già in atto.

Il parco eolico di Lake Turkana in Kenya

Un esempio di come la combinazione della capacità di finanziamento delle banche multilaterali con l’utilizzo opportuno di strumenti di mitigazione di rischio a beneficio degli investitori privati possa permettere il finanziamento di progetti di dimensione significativa in Africa è il parco eolico in corso di costruzione nella regione del Lake Turkana nel Kenya. Il progetto consiste nella costruzione e nella gestione di un parco eolico di una capacità complessiva di 300 MW, attraverso l’installazione di 365 turbine aventi una capacità unitaria di 850 KW. Il progetto – che richiede un investimento complessivo di 585 milioni di Euro – consentirà l’erogazione di energia pulita e consentirà al Kenya di aumentare del 25% la propria capacità totale installata.

Il finanziamento dell’operazione è stato accordato da banche multilaterali (la African Development Bank e la BEI), da un’agenzia di credito all’esportazione (la danese EKF) e da un consorzio di banche commerciali. Il progetto viene finanziato con la tecnica del Project Financing, secondo la quale gli enti finanziatori non beneficiano di garanzie emesse dagli azionisti del progetto, né di garanzie emesse dal governo keniano. Ciononostante, la sostenibilità economica dell’iniziativa dipende dal rispetto del cruciale impegno del governo keniano di mettere a disposizione del nuovo impianto una linea di trasmissione che immetterà in rete l’energia prodotta dal parco eolico. Si tratta di un’infrastruttura non banale, che coprirà un percorso di 428 chilometri: il rischio che la costruzione possa subire dei ritardi o soffrire di altri problemi è un rischio assai concreto. Allo scopo di assicurare la bancabilità dell’operazione, l’African Development Bank ha emesso una garanzia di rischio parziale (Partial Risk Guarantee) a specifica copertura del rischio di ritardi nel completamento e nella messa in esercizio della linea di trasmissione.

Si tratta di uno strumento finanziario relativamente innovativo, concepito per coprire esclusivamente alcuni rischi specifici predefiniti, lasciando invece prive di copertura specifica ipotesi di insolvenza legate ad altre tipologie di rischio.

Autore: Luigi de Pierris, Senior Advisor dell’African Development Bank


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