SXSW Festival 2012

Creato il 23 aprile 2012 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Dalla nostra corrispondente da New York Stefania Paolini

«I telefoni diventano sempre più sottili e intelligenti, mentre le persone più grasse e stupide», ha postato un amico inglese sul suo facebook.  A tale osservazione, per altro condivisibile, un giovanotto ha dovuto commentare, con umorismo tutto British, «fai prima a dire che diventano americane». Ora, io comprendo la generale tendenza dei Britannici a mal accettare la fine dell’Impero, e pur tuttavia questa uscita mi ha scocciato decisamente. Dopo aver redarguito acidamente il responsabile, mi sono resa conto di quanto dissenta dalla grossolana convinzione che gli Americani siano stupidi o superficiali e quant’altro. Insomma, vivo qui da abbastanza tempo per poter affermare che la percezione europea e snobista dell’America non sia un problema di equipaggiamento mentale – il loro, inferiore – ma di una comodità interpretativa – la nostra – che minimizza ciò che altrimenti sarebbe difficile da digerire. L’Europa affonda sotto il peso di un’inferiorità economica secolare, non si vorrà mica che questi siano pure svegli…

L’America è una supremazia di contraddizioni e sfaccettature, numerose e complesse, tanto da non esaurirsi mai. Ed anche questo è un luogo comune. Pare che leggere gli Stati Uniti e rifuggire dai cliché non si possa fare se non adottandone uno come linea guida interpretativa. Ma facciamo un esempio, se si pensa al Texas, cosa viene in mente? A me personalmente, J.R.Dallas (1978) e le spalline di Joan Collins. Oppure penso ai barbecue o agli stivali vintage da cowboy o al gruppo psych rock dei Black Angels. Sono sicura che nella maggior parte dei casi però, Texas sia sinonimo di buttero, razzismo, esuberanza poliziesca, oltranzismo religioso e reazione politica. Vero. In parte. Ed in parte falsissimo, perché proprio in Texas esistono realtà culturali in grande fermento, fucine fertili di creatività che hanno eco vastissima anche a livello internazionale.

Al centro di tutto questo ribollire c’e’ Austin, cittadina radicale e graziosissima, che ospita da ben venticinque anni SXSW (South By South West), una conferenza mondiale che aspira a rendere conto di quanto di emozionante e notevole accada globalmente nell’ambito della musica, dell’audiovisivo e dei nuovi media. SXSW nasce innanzitutto come vetrina per nuovi artisti e come occasione per riflettere sulle nuove direzioni dell’industria musicale. Dal 1994 alla sezione musicale si affianca quella cinematografica/multimediale. Oggi le aree in cui si articola il festival sono tre (Music/Film/Interactive), e le attività connesse all’evento coprono un periodo di circa due settimane.

Per il mondo dei media americano, SXSW è come Natale, solo che si beve decisamente di più e le ragazze indossano esclusivamente hot pants. Durante la mia recente trasferta texana mi sono adattata ai mores locali, non si dica mai che non sono rispettosa delle altre culture, per cui, margaritas permettendo ed inforcati gli occhiali da sole, mi sono docilmente messa in coda per partecipare alla miriade sconfinata di proiezioni, conferenze, tavole rotonde e incontri.

La sezione Film del festival, in principio semplicemente una rassegna satellite di pellicole a sfondo musicale, è oggi afflitta da elefantiasi e si articola in ben diciannove ramificazioni, ivi inclusa una competizione, in un florilegio di categorie, che vanno dai video clip ai lungometraggi narrativi e documentaristici, ai corti scolastici, alle premiere internazionali, alle sperimentazioni e nuovi sguardi, sino ai contributi più propriamente attinenti al tema musicale.

Nel tentativo conclamato di fare le scarpe ai più blasonati Sundance e Tribeca, SXSW si sta, via via, imponendo come il luogo deputato alla celebrazione del cinema indipendente americano. Questo accade soprattutto perché, oltre alle proiezioni, il convegno offre infiniti momenti di formazione e networking per gli aspiranti cineasti. Numerosissimi sono infatti i panel (tavole rotonde) durante i quali vengono sviscerate aspetti vitali della produzione cinematografica, dalla scrittura, alla fund-raising, alle nuove tecnologie – quest’anno, per esempio, notevoli sono state le erezioni – figurate, ma anche non – provocate da Alexa, la nuova camera digitale che si appresta a soppiantare la Red come standard aureo dei cinematografari indie.

La vocazione a ibridare i momenti di fruizione con quelli di riflessione, mi verrebbe da dire quasi metalinguistica, riguarda in maniera trasversale tutte le sezioni di SXSW. Così non è raro che un panel con ospiti Richard Linklater e il suo fido music supervisor Randall Poster avvenga in seno alla sezione Music, mentre l’incontro col DEVino Mark Mothersbaugh, compositore per cinema e TV e icona post punk, faccia parte del programma Film e Interactive.

Ma interazioni, sovrapposizioni e tequila a parte, anche quest’anno durante il festival sono emerse tematiche e orientamenti più o meno manifesti. Innanzitutto è ben chiaro il desiderio di aprire SXSW all’estero, di renderlo un momento significativo non esclusivamente per la produzione a stelle e strisce. Non a caso è stata creata una sotto-sezione, SXGlobal, dedicata al panorama internazionale, con un focus deciso verso il documentario.

Nella selezione di quest’anno figurava anche un titolo italiano, il nostalgico e un po’ ruffiano Italy – Love It Or Leave It (2012). I registi, il sudtirolese Gustav Hofer e il romanissimo Luca Ragazzi, confezionano un gradevole road movie per convincersi e convincere sul perché abbia ancora senso per un giovane oggi rimanere in Italia. A parte la pasta di mamma e le meraviglie nostrane, l’imperitura indole di noi Italiani brava gente dovrebbe persuaderci circa un futuro possibile e dignitoso per il paese più bello del mondo.

Il film è piaciuto, merito delle immagini accattivanti, del messaggio – molto americano – del “si può fare, si può cambiare”. Ma merito anche, ritengo, dei sottotitoli, stratagemma che consente di aggirare il difetto maggiore del film, ovvero la sua qualità di messa in scena, di scenetta carinamente assortita, aspetto che invece traspare impietosamente dal commento in voiceover fornito dagli stessi registi e realizzato in maniera tutt’altro che convincente. Per quanto il film alla fine non mi abbia pienamente conquistato, sarebbe cinico ed anche sciocco non riconoscerne il valore morale e l’utilità in termini di ricostituzione della tempra nazionale. Senza contare che, da emigrante stereotipica, vedere i borghi natii sul silver screen, qualche lacrima me l’ha pure mossa.

Altro trend emerso durante l’edizione 2012 è un certo recupero del documentario musicale d’alto profilo. É certo evidente che SXSW cerchi di emanciparsi dallo stigma di ricettacolo indistinto di pellicole a sfondo musicale, ma è pur vero che per trovare una propria identità più precisa, il festival debba fare i conti con il suo specifico. I titoli presentati quest’anno sono così di grande qualità e tra di essi fanno bella mostra di sé: Shut Up and Play The Hits – The Last Days Of LCD Soundsystem (2012), e il mio personal favorite Nothing Can Hurt Me Now (2012). Quest’ultimo, la commossa ricostruzione della storia dei Big Star, uno dei più sottovalutati e al contempo influenti gruppi rock americani, è in realtà un work in progress e non è ancora giunto ad un editing definitivo.

Nothing Can Hurt Me Now

Un’ulteriore macrotendenza riscontrata riguarda la massiccia presenza femminile. Dal romanticismo sussurrato e moderno di See Girl Run (2012, di Nate Meyer) o Leave Me Like You Found Me (2012, di Adele Romanski) all’ultra violenza di Girls Against Boys(2012, di Austin Chick), al neo-realismo di Francine (2012, di Brian M. Cassidy/Melanie Shatzky) e Kid-Thing (2012, di David Zellner), sino alle eroine del documentario Wonder Women – The Untold Story Of American Superheroines (2012, di Kristy Guevara/Flanagan), ogni dimensione dell’eterno femminino trova spazio e celebrazione. Che si tratti di storie, di professionalità o temi, il rosa è il colore dell’anno a SXSW. E donna è la regista, Rebecca Thomas, di uno dei film più amati al festival, Electrick Children (2011), così come è donna il personaggio principale di Lovely Molly (2012), il nuovo atteso horror di Eduardo Sanchez, autore culto di The Blair Witch Project (1999).

Ho avuto la discutibile idea di andare a vedere Lovely Molly ad una proiezione über notturna, e ciò ha completamente compromesso le già rare ore di sonno che ho potuto dedicare alla mia esile figura durante il tour de force del festival. Era da un po’ che un film non mi spaventava tanto. E a tutt’oggi non riesco ancora a capacitarmi della mia risibile reazione, data poi la non eccelsa caratura del film.

Lovely Molly, molto succintamente, parla di una coppia di novelli sposi che si trasferisce a casa del defunto padre di lei, Molly (Gretchen Lodge). La nuova location si presenta subito incline all’attività paranormale, circostanza problematica per la stabilità mentale della protagonista, che tuttavia non si esime dal documentare minuziosamente tali occorrenze soprannaturali con l’ausilio, rullo di tamburi, di una videocamera. Eduardo Sanchez, in quello che doveva essere il suo trionfale ritorno, gioca in casa e gioca sporco, ricorrendo ripetutamente al trucco del “fan footage”, stratagemma narrativo che fece la fortuna di The Blair Witch Project.

Lovely Molly

A parte la sensazione insopportabile di uno stantio deja-vu e di un immodesto autocitazionismo, quello che infastidisce della scelta stilistica di Sanchez è che mette in luce, impietosamente, la fragilità di una storia completamente dipendente da un dispositivo narrativo, il fan footage per l’appunto, che neppure trova spiegazione nella psicologia e caratterizzazione del personaggio. Molly non è, infatti, che una donna delle pulizie, senza educazione e formazione, perché questa ossessione e questa perizia audiovisive?

A minare ancor di più il senso di realtà sono il pessimo lavoro del dipartimento trucco e parrucco – va bene la sospensione dell’incredulità, ma il pubblico oggi è troppo scafato per farsi abbindolare da quelle false occhiaie, roba che una tredicenne dopo una sessione di tutorial su youtube saprebbe fare meglio – e dalle traballante interpretazione della Lodge.

Io sono sempre stata avversa alla concezione che l’horror fosse un refugium peccatorum per attrici dotate di corde vocali spesse un dito, grandi seni e scarse abilità interpretative. Al contrario, l’illusione è fondamentale perché il terrore venga somministrato efficacemente. E, invece, in Lovely Molly i primi piani a profusione sul volto mal addobbato, e talora non plausibile, della Lodge sono un disservizio non trascurabile alla credibilità della visione. Per qualche misterioso motivo, il film arriva però a destinazione, suscitando quel rush di paura che ne definisce l’intima ragion d’essere semiotica.

Sul terreno dell’inverosimile si gioca anche Electrick Children, gradevole commedia dell’esordiente Rebecca Thomas, già in mostra alla Berlinale. Questo piccolo e grazioso film racconta di una giovane mormone che si ritrova incinta dopo aver ascoltato di nascosto un nastro contenente musica rock. All’indomani dell’inspiegabile evento, la quindicenne abbandona la sua comunità in cerca della voce registrata sulla cassetta, convinta che sia la causa della gravidanza.

Tra realismo magico – genere molto trendy di recente – e romanzo di formazione, Rebecca Thomas tesse un film delizioso, leggiadro. Il tutto è però un po’ troppo lezioso, e la stilizzazione spinta della realizzazione riduce tutto ad un’oleografia, compresi temi fastidiosi come l’indottrinamento coatto, la manipolazione o l’abuso. É poi impossibile soprassedere sull’assoluta mancanza d’urto della colonna sonora, questo frutto proibito che dovrebbe essere il rock and roll, il motore immobile della storia, langue invece inspiegabilmente in sede di musiche.

Nonostante un cast abilissimo, prima su tutti la giovane protagonista Julia Garner, già vista come adepta di un culto nel ben più cupo Martha Marcy May Marlene (2011), il film emoziona ma non commuove. Electrick Children è una pellicola rispettabile, ma ha l’impatto sensuale di un tubo di Smarties, è colorato, ingolosisce, ma non sazia l’appetito e, alla fine dei conti, se ne può forse anche fare a meno.

Come accennato in apertura, la competizione quest’anno si diramava in diverse sottosezioni. Il sistema di attribuzione dei premi distingueva tra voto della giuria (jury) e voto del pubblico (audience). Questa è la lista definitiva delle categorie e dei relativi recipienti:

Feature Film Jury Awards

NARRATIVE FEATURE COMPETITION

Grand Jury Winner: Gimme The Loot
Director: Adam Leon

Special Jury Recognition for Performance:
Jamie Chung – Eden
Besedka Johnson – Starlet
Nico Stone – Booster

DOCUMENTARY FEATURE COMPETITION

Grand Jury Winner: Beware of Mr. Baker
Director: Jay Bulger

Feature Film Audience Awards

NARRATIVE FEATURE

Winner: Eden
Director: Megan Griffiths

DOCUMENTARY FEATURE

Winner: Bay of All Saints
Director: Annie Eastman

Short Film Jury Awards

NARRATIVE SHORTS

Winner: The Chair
Director: Grainger David

DOCUMENTARY SHORTS

Winner: CatCam
Director: Seth Keal

MIDNIGHT SHORTS

Winner: Don’t Hug Me I’m Scared
Directors: Rebecca Sloan & Joseph Pelling

SXGLOBAL SHORTS

Winner: The Perfect Fit
Director: Tali Yankelevich

ANIMATED SHORTS

Winner: (notes on) biology
Director: Danny Madden

MUSIC VIDEOS

Winner: Battles, “My Machines”
Director: DANIELS

TEXAS SHORTS

Winner: Spark
Director: Annie Silverstein

TEXAS HIGH SCHOOL SHORTS

Winner: Boom
Director: Daniel Matyas & Brian Broder

SXSW Film Design Awards

EXCELLENCE IN POSTER DESIGN

Winner: Man & Gun
Designer: Justin Cox

Special Jury Recognition: Pitch Black Heist/em>
Designer: Andrew Cranston

Audience Award Winner: The Maker/em>
Designer: Christopher Kezelos

EXCELLENCE IN TITLE DESIGN

Winner: Les Bleus de Ramville
Designer: Jay Bond, Oily Film Company Inc.

Special Jury Recognition: X-Men: First Class
Designer: Simon Clowes, Prologue Films

Audience Award Winner: Bunraku
Designer: Guilherme Marcondes, Hornet Inc.

 

SXSW Special Awards

SXSW WHOLPHIN AWARD

Winner: The Black Balloon
Director: Benny Safdie & Josh Safdie

SXSW CHICKEN & EGG EMERGENT NARRATIVE WOMAN DIRECTOR AWARD

Winner: Megan Griffiths for Eden and Amy Seimetz for Sun Don’t Shine

LOUIS BLACK LONE STAR AWARD

Winner: Bernie
Directors: Richard Linklater

Special Jury Recognition: Trash Dance
Director: Andrew Garrison

KAREN SCHMEER FILM EDITING FELLOWSHIP

Presented to: Lindsay Utz

Scritto da Stefania Paolini il apr 23 2012. Registrato sotto AMERICAN SPLENDOR, RUBRICHE, TAXI DRIVERS CONSIGLIA. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione

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