Tabula Rasa ovvero «Replay scrive, cancella e riscrive!»

Creato il 13 giugno 2014 da Signorponza @signorponza


Ci sono quelle volte in cui passate lunghe notti di veglia a studiare un progetto, poi il giorno dopo lo presentate al vostro capo che appallottola il vostro plico di scartoffie, fa canestro nel cestino all’angolo della parte opposta del suo ufficio e con sorriso sornione e tono abbastanza deciso da marcare la propria autorità ma non troppo, perché la sua persona sovrasta il potere che lui stesso esercita, vi dice «non ci siamo, tutto da rifare, TABULA RASA». E allora voi iniziate a covare un odio profondo per questa espressione. Poi tornate a casa, vi domandate chi ve l’ha fatto fare, che volete piantare tutto e andare a raccogliere i pomodori in Australia a 3000 euro al mese e dite a voi stessi «basta,

ricomincio da capo, TABULA RASA». E capite quanto questa locuzione latina che prima vi ha sbeffeggiato, in realtà sia dalla vostra parte, un’alleata, un’arma che anche voi potete impugnare. Poi vi coricate, vi rigirate nel letto tormentati dalle vostre decisioni in bilico tra santi e falsi dèi e col sonno vi rimangiate tutto. Tutto, tranne la presa di coscienza del nefasto potere di TABULA RASA. È arrivato oggi il momento di fare un passo in più, di leggere il libretto d’istruzioni di quest’arma e capire chi l’ha forgiata, come e perché.

Come abbiamo visto in precedenza per Deus ex machina, anche nel caso di tabula rasa ci troviamo davanti a un’espressione che nell’uso che se ne fa al giorno d’oggi ha perso del tutto il significato tecnico originario. E se là si trattava degli spettacoli teatrali, qui invece riguarda la prassi scrittoria antica. Quando si pensa a un supporto scrittorio antico subito la mente vola ai rotoli di papiro accatastati nei polverosi scaffali della biblioteca di Alessandria o srotolati sulle ginocchia di Cicerone, tutto curvo, intento a leggere gli Annales di Ennio in veranda nella sua villa di Tuscolo o al cartone Papyrus e i misteri del Nilo fra miti e leggende di menti e culture stupende con la strada incantata che è stata tracciata da tutte le divinità. Tuttavia oltre al papiro, prodotto per lo più in Egitto e maggiormente in uso nel Mediterraneo orientale, esistevano altri supporti scrittori tra cui le tavolette cerate, assai più comuni e di più facile reperibilità in occidente, a Roma in primis. Ogni tavoletta di legno aveva una faccia liscia, su cui si scriveva a inchiostro o si imprimeva coi ferri il contenuto della tavoletta, l’altra come delimitata da una cornice, dovuta al fatto che all’interno vi era ricavato un rettangolo dove il legno era di minor spessore. Questa parte incavata veniva coperta di cera scura, su cui si scriveva incidendo i caratteri con uno stilo appuntito da una parte e piatto, a spatola, dall’altra, per cancellare in caso di errore. Appunto, per radere la tabula e ricominciare da capo. Qui sotto in un ritratto proveniente da Pompei (Ritratto di Terenzio Neo e sua moglie), datato tra il 55 e il 79 d C., si vedono a destra il marito con in mano un rotolo di papiro, a sinistra la moglie che tiene nella mano destra lo stilo, appoggiandolo sulle labbra, nella sinistra la tabula cerata aperta.

Le tavolette cerate, data la loro praticità d’uso e limitata capacità di contenuto, erano usate soprattutto dagli studenti per prendere appunti a lezione, o nella documentazione burocratica più spiccia. Esistono però numerose menzioni di questa prassi scrittoria anche all’interno di opere letterarie. So che questa è una rubrica di latino, quindi anche se ora vi citerò qualche esempio greco state tranquilli, tenete pure giù le mani e non sprecate lo vostre giustifiche, non lo metto nel programma.

La più antica menzione di queste piccole tavolette è nell’Iliade (VI, 169). Il passo in questione è molto noto tra gli studiosi perché costituirebbe un’attestazione sicura del fatto che Omero conoscesse la scrittura, cosa non così ovvia come si crederebbe, perché egli in realtà era un poeta orale, un cantore che recitava antiche storie mitiche, e non autore nel senso moderno del termine che mise per iscritto i due poemi a lui tradizionalmente attributi. Chi cita queste tavolette è l’eroe Bellerofonte. Costui, dopo aver ucciso il re di Corinto Bellero si recò ospite da Preto re di Tirinto, che aveva la facoltà di assolvere i crimini. La moglie di Preto, Stenebea, s’innamorò di Bellerofonte ma, respinta, meditò vendetta, dicendo al marito di esser stata lei vittima delle lusinghe dall’eroe. Uccidere un ospite era un atto sacrilego, allora Preto decise di agire così (Iliade VI, 167-170):

Si trattenne dall’ucciderlo, ne ebbe ritegno nel cuore,
ma lo mandò in Licia e gli diede una tavoletta piegata
con su scritti segni funesti, parole capaci di dare la morte,
e gli ordinò di mostrarla al suocero, che lo uccidesse.

Dà a Bellerofonte una tavoletta da consegnare a suo suocero (Iobate re di Lidia) in cui, tramite un cifrario incomprensibile, si richiedeva che l’eroe fosse ucciso. Bellerofonte diventa latore inconscio della sua sentenza di morte. Anche alla corte di Lidia però Bellerofonte sarà un ospite e si ripresenta il problema precedente, che Iobate aggira affidando all’eroe un compito impossibile, in cui – ne era certo – avrebbe sicuramente trovato la morte: uccidere la Chimera. Egli tuttavia, in sella al suo cavallo alato Pegaso, riuscì nell’impresa e, come ricompensa, ottenne in sposa la figlia di Iobate. M’immagino la sua faccia al pranzo di Natale con tutto il parentado quando gli piazzano vicino quella simpatica infame di Stenebea.

Il secondo caso, e qui non siamo più nel mito ma nella vera verità, è quello di Callimaco (310 a. C. – 240 a. C.), uno dei più grandi poeti greci d’età ellenistica, uomo dottissimo, tanto che ricevette il compito da parte del re Tolomeo II Filadelfo di fare il catalogo di tutti libri della biblioteca di Alessandria, di cui rese conto nei suoi Pinakes (Tavole), bibliografia enciclopedica di tutte le opere della letteratura greca. Altra sua opera furono gli Aitia (gr. aitia ‘cause’), una raccolta poetica in quattro libri, giuntaci purtroppo in forma frammentaria, dove sono raccontate le origini mitiche di città, culti e usanze. Nel prologo dell’opera Callimaco racconta la propria vocazione letteraria e i principi della sua poetica. I versi in questione, da me grossolanamente tradotti, sono i seguenti (fram. 1 Pfeiffer vv. 21- 28):

Infatti quando la prima volta sulle mie ginocchia posai
La tavoletta, Apollo Licio mi disse:
«Sempre, o poeta, la vittima sacrificale quanto più pingue
Si deve offrire, ma la Musa, o carissimo, che sia sottile.
Inoltre questo ti dico: le vie che non battono i carri
Queste devi calcare. Sulle stesse orme degli altri
Non spingere il carro, né su una strada larga, ma sentieri
Non battuti percorri, se anche per via più stretta.

Apollo, dio della poesia e dell’arte, dà un precetto a Callimaco che farà scuola per molti secoli sia in Grecia sia a Roma: abbandonare le infinite file di versi e i toni altisonanti dell’epica e dirigersi verso una poesia più breve ma più dotta nei contenuti e curata nella forma. E lo fa fin da subito, fin da quando Callimaco, ancora studentello con l’Invicta che gli va dalle spalle ai tolloni, a scuola tiene la sua tavoletta cerata di Peppa Pig sulle ginocchia.


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