Le mie amiche erano felici per me? O soffrivano se io soffrivo? Di certo io ero quello che soffriva quando tra loro le cose si incastravano nel dedalo di giochetti e rescusoni (espressione dialettale ligure che intende definire le bugie in modo carino) nei quali si perdevano, piccandosi l'un l'altra per quella frase o quel messaggio. Mi resi conto, che la mia sceneggiatura perfetta in cui tutti e quattro noi condividevamo umori e pudori ma anche la vita con i suoi colpi bassi, facendoci coraggio l'un l'altro, era un tantino romanzata. Ahia fingendosi offesa, aveva dovuto fare una scelta tra gli spermatozoi del suo fidanzato e la mia amicizia e dato che con quest'ultima non si resta incinte, aveva scelto di farmi fuori anche perché sul social network avevo detto chiaro e tondo al suo fidanzato cosa pensavo del suo snobbismo, e quindi, secondo lei, avevo fatto sapere a qualcuna che “stava con un idiota”. Secondo Te, dopo aver tagliato per prima il nastro della convivenza col suo uomo finì a litigare con me sul treno proprio dopo averla aiutata a fare armi e bagagli per tornarsene a casa, preoccupata del fatto che “qualcuna si sarebbe sfregata le mani”per il suo fallimento. Assolutamente dal canto suo, proprio non aveva sopportato che le dessi della stronza per la sua insistenza nel volere aver ragione ma era ben lieta di riconfermare la sua amicizia a chi lo pensava senza dirglielo nei denti una sola volta. Che dire? Io e il mio sagittario “a vapore” rimanevamo sempre schiacciati dai loro dolori, dissapori, e tragedie, fino a litigare tra noi, mentre loro con incantevole candore parevano capaci di dimenticarseli in virtù di un week end o di una nuova alleanza che di nuovo aveva veramente poco. Ricordo come erano solite dirci: siete troppo buoni, per riferirsi al fatto che lo eravamo con quella di loro che meno lo meritava, ignorando che ciclicamente quell'una era una di loro! Persino la decennale durata del nostro rapporto che di certo non era come loro descrivevano i propri ma più realisticamente fatto di grosse sfide e difficoltà superate al costo della reciproca salute mentale e fisica, e di una buona dose di eccitazione andata a farsi fottere, era visto per loro come una “fortuna”. Fortuna? Era proprio sfortunata Ahia a non rimanere incinta nell'esatto momento in cui lo voleva come voleva una telefonata di scuse al posto delle scarpe che le avevo mandato, perché spendere soldi non aggiusta le cose che “si rompono”. Quanto avrei voluto dirle che essere così cattiva con me non avrebbe reso gli spermatozoi di nessuno abbastanza coraggiosi per quel viaggio, né quell'uomo che usava, più sensibile ai suoi dolori, oppure dire a Secondo Te, che la sfortuna non era stata quella di essere lasciata al telefono dopo tre anni di convivenza ma quella di non riuscire ad accorgersi che quell'uomo lo aveva fatto dopo aver accettato che esistesse solo lei ed essersi accorto che non valeva lo stesso per lui. Che era vero che i suoi bisogni venivano sempre prima di quelli di chiunque altro, e che in tutti quei tre anni lei aveva vissuto credendo che la fortuna fosse di quell'uomo, almeno fino a quando lui le chiarì che la fortuna non è amore. Avrei detto volentieri ad Assolutamente che non era sfortunata se la cameriera andava in pensione o la lavatrice si rompeva, come lei sosteneva, ma che la sua vera sfortuna era quella di non sopportare di vivere un giorno da stronza, vivendone mille sotto il compromesso mal digerito delle vacanze estive che il suo “fidanzato” trascorreva che le piacesse o meno con lex moglie e le sue figlie. Vacanze che il suo ex marito non si era mai sognato di passare con lei e il suo. Ma io ero “fortunato”, perché avevo un uomo che non mi aveva lasciato, sia che facessi sesso o no, che fossi bello o meno, che i soldi ci fossero o no, quindi non potevo dirglielo. Si ero fortunato e mi sentivo tale anche quando lui sembrava non avere più niente da offrirmi, quando miseri e preoccupati ci davamo la schiena nel letto per non farci vedere l'un l'altro piangere dal dolore di quella notizia di un medico o di un commercialista che vedeva i nostri progetti andare in fumo. Fortunato, quando la mattina dopo, lui trovava la forza di andare avanti nel farmi la colazione, e io la sera nel riporre nei suoi cassetti le polo tutte uguali che gli stiravo come se andasse tutto bene. Intanto che avevo delle amiche talmente “sfortunate” che mi dicevano: beato te.
Le mie amiche erano felici per me? O soffrivano se io soffrivo? Di certo io ero quello che soffriva quando tra loro le cose si incastravano nel dedalo di giochetti e rescusoni (espressione dialettale ligure che intende definire le bugie in modo carino) nei quali si perdevano, piccandosi l'un l'altra per quella frase o quel messaggio. Mi resi conto, che la mia sceneggiatura perfetta in cui tutti e quattro noi condividevamo umori e pudori ma anche la vita con i suoi colpi bassi, facendoci coraggio l'un l'altro, era un tantino romanzata. Ahia fingendosi offesa, aveva dovuto fare una scelta tra gli spermatozoi del suo fidanzato e la mia amicizia e dato che con quest'ultima non si resta incinte, aveva scelto di farmi fuori anche perché sul social network avevo detto chiaro e tondo al suo fidanzato cosa pensavo del suo snobbismo, e quindi, secondo lei, avevo fatto sapere a qualcuna che “stava con un idiota”. Secondo Te, dopo aver tagliato per prima il nastro della convivenza col suo uomo finì a litigare con me sul treno proprio dopo averla aiutata a fare armi e bagagli per tornarsene a casa, preoccupata del fatto che “qualcuna si sarebbe sfregata le mani”per il suo fallimento. Assolutamente dal canto suo, proprio non aveva sopportato che le dessi della stronza per la sua insistenza nel volere aver ragione ma era ben lieta di riconfermare la sua amicizia a chi lo pensava senza dirglielo nei denti una sola volta. Che dire? Io e il mio sagittario “a vapore” rimanevamo sempre schiacciati dai loro dolori, dissapori, e tragedie, fino a litigare tra noi, mentre loro con incantevole candore parevano capaci di dimenticarseli in virtù di un week end o di una nuova alleanza che di nuovo aveva veramente poco. Ricordo come erano solite dirci: siete troppo buoni, per riferirsi al fatto che lo eravamo con quella di loro che meno lo meritava, ignorando che ciclicamente quell'una era una di loro! Persino la decennale durata del nostro rapporto che di certo non era come loro descrivevano i propri ma più realisticamente fatto di grosse sfide e difficoltà superate al costo della reciproca salute mentale e fisica, e di una buona dose di eccitazione andata a farsi fottere, era visto per loro come una “fortuna”. Fortuna? Era proprio sfortunata Ahia a non rimanere incinta nell'esatto momento in cui lo voleva come voleva una telefonata di scuse al posto delle scarpe che le avevo mandato, perché spendere soldi non aggiusta le cose che “si rompono”. Quanto avrei voluto dirle che essere così cattiva con me non avrebbe reso gli spermatozoi di nessuno abbastanza coraggiosi per quel viaggio, né quell'uomo che usava, più sensibile ai suoi dolori, oppure dire a Secondo Te, che la sfortuna non era stata quella di essere lasciata al telefono dopo tre anni di convivenza ma quella di non riuscire ad accorgersi che quell'uomo lo aveva fatto dopo aver accettato che esistesse solo lei ed essersi accorto che non valeva lo stesso per lui. Che era vero che i suoi bisogni venivano sempre prima di quelli di chiunque altro, e che in tutti quei tre anni lei aveva vissuto credendo che la fortuna fosse di quell'uomo, almeno fino a quando lui le chiarì che la fortuna non è amore. Avrei detto volentieri ad Assolutamente che non era sfortunata se la cameriera andava in pensione o la lavatrice si rompeva, come lei sosteneva, ma che la sua vera sfortuna era quella di non sopportare di vivere un giorno da stronza, vivendone mille sotto il compromesso mal digerito delle vacanze estive che il suo “fidanzato” trascorreva che le piacesse o meno con lex moglie e le sue figlie. Vacanze che il suo ex marito non si era mai sognato di passare con lei e il suo. Ma io ero “fortunato”, perché avevo un uomo che non mi aveva lasciato, sia che facessi sesso o no, che fossi bello o meno, che i soldi ci fossero o no, quindi non potevo dirglielo. Si ero fortunato e mi sentivo tale anche quando lui sembrava non avere più niente da offrirmi, quando miseri e preoccupati ci davamo la schiena nel letto per non farci vedere l'un l'altro piangere dal dolore di quella notizia di un medico o di un commercialista che vedeva i nostri progetti andare in fumo. Fortunato, quando la mattina dopo, lui trovava la forza di andare avanti nel farmi la colazione, e io la sera nel riporre nei suoi cassetti le polo tutte uguali che gli stiravo come se andasse tutto bene. Intanto che avevo delle amiche talmente “sfortunate” che mi dicevano: beato te.