Saleta è una dottoranda dell'Università di Santiago de Compostela che sta scrivendo una tesi sui blog in cotutela con la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell'Università di Bologna. Mi ha contattata ieri per sottopormi un questionario, teso ad indagare le motivazioni che spingono una persona, che si suppone sana di mente fino a prova contraria, a mettere su internet la propria vita. Saleta sostiene infatti, nella sua email, che almeno in Italia non ci sono molti blog a carattere "diaristico", come li chiama lei. E ovviamente Taccodieci è uno di questi.
Se Saleta non avesse scritto di frequentare la Facoltà di Scienze della Comunicazione avrei perfino potuto pensare di essere ufficialmente diventata un caso clinico a tutti gli effetti, da studiare da parte di uno bravo, come si suol dire.
E invece guarda un po’: il mio blogghino prende il suo trolley rosa e si mette in viaggio verso la Spagna, lungo un cammino che solitamente è religioso, ma che in questo caso di religioso non ha proprio un tubo.
Ho compilato il questionario per Saleta, onorata di ricevere tanta attenzione, e l'ho trovato veramente interessante. Ci sono domande molto intelligenti, che chiedono di indicare, ad esempio, non genericamente perchè si spiattelli tutto su internet, ma che cosa significhi il nome o lo pseudonimo utilizzato in fase di scrittura.
Il questionario di Sareta mi ha dato spunto per riflettere su cosa voglia dire scrivere un blog, soprattutto a carattere diaristico. Sono una persona piuttosto impulsiva, cioè di norma se mi va di fare qualcosa prima di tutto la faccio, poi rifletto sulle cause e le conseguenze. In questo caso, quattro anni fa ho aperto il mio primo blog, in possesso di zero competenze in materia, e con quattro anni di ritardo e sempre zero competenze in materia mi interrogo sulle motivazioni e le conseguenze di questo gesto.
Sempre che poi valga la pena, dopo tanto tempo, di mettersi a cavillare se valga effettivamente la pena di tenere un diario su internet oppure no (che frase orribile).
Ciò che ho scritto nel questionario inviato da Saleta, in sostanza, è che per gran parte delle 24 ore della giornata mi viene chiesto di essere ciò che non sono:
- Un’efficiente lavoratrice.
- Una specie di casalinga tuttofare.
- Un’amica super fidata.
- Una figlia adorabile.
- Una compagna di ballo leggera ed aggraziata.
- Una persona solare, piena di spirito di iniziativa ed immancabilmente brillante.
Io non sono tutto questo. O almeno non lo sono al massimo grado. Al massimo ci provo. Giuro che ci provo.
Qui invece sono libera di essere quello che voglio. Ci sono giorni in cui mi mostro esattamente così come sono (in genere i post in cui combino più disastri di un uragano sulle coste del Pacifico) e giorni in cui mi diverte essere per un’ora ciò che non sono e che non potrò mai essere nella vita reale. Questo mi fa stare bene e non nuoce ad alcuno, quindi poco male se abbia altra utilità o meno.
Sono tuttavia curiosa di conoscere il responso della tesi di Saleta: siamo malati mentali, megalomani esibizionisti, egocentrici senza speranza noi che, come dice Anne Holt, siamo così egoisti da pensare che la nostra vita sia interessante per tutti? Oppure abbiamo solamente trovato una valvola per sfogare la pressione in eccesso che il solo fatto di vivere una vita quanto più normale possibile comporta?
Saleta purtroppo dice che la sua tesi è ancora un abbozzo e ci vorrà del tempo prima che sia conclusa. Ha comunque promesso di inviarne una copia (speriamo in una lingua comprensibile, altrimenti avrò bisogno di qualcuno che parli spagnolo per una traduzione al volo delle parti salienti) e non appena giungerà a destinazione vi farò conoscere l’ardua sentenza.
La Redazione