Tadeusz Borowski
Prosatore, poeta, critico, pubblicista. Nacque a Żytomierz in Ucraina. Nel 1926 il padre fu arrestato dalle autorità sovietiche per la sua vecchia appartenenza alla Organizzazione Militare Polacca e condotto nella Carelia Russa. Quattro anni dopo la madre subì la stessa sorte del marito e fu deportata in Siberia. I due figli – Juliusz e Tadeusz, più giovane di 4 anni, furono rispettivamente ospitati da un collegio e da una zia. Nel 1932 il padre fu liberato e poté ricongiungersi ai figli. La madre invece tornò in Polonia due anni dopo. La famiglia Borowski si stabilì a Varsavia. Nel 1940 Tadeusz terminò il liceo clandestino. Cominciò a lavorare nel magazzino di una impresa edile e contemporaneamente iniziò gli studi di filologia polacca presso l’Università clandestina di Varsavia, dove conobbe la sua futura moglie Maria Rundo. A febbraio del 1943 fu condotto nel campo di concentramento di Auschwitz, dove si trovava anche la sua fidanzata Maria, e dove lavorò come infermiere.
Debuttò nel 1942 con la raccolta di poesie catastrofiche Gdziekolwiek ziemia (Dovunque la terra). La successiva raccolta – Arkusz poeticki (Foglio poetico), uscì nel 1944. Il 1 maggio 1945 riacquistò la libertà. Dopo la guerra soggiornò a Monaco e nel 1946 tornò in Polonia, dove sposò Maria Rundo. Iniziò la sua collaborazione come prosatore e critico con la stampa comunista. Nel 1948 entrò nel Partito Polacco Unificato dei Lavoratori. Nello stesso anno uscirono i volumi di racconti legati ad Auschwitz – Kamienny świat (Mondo di pietra) e Pożegnanie z Marią (Addio a Maria). Negli anni successivi si impegnò attivamente come divulgatore dell’ideologia comunista. Dal mese di giugno 1949 al mese di marzo 1950 lavorò presso l’Ufficio Stampa Polacco a Berlino, ufficialmente come capoufficio della sezione culturale, ma in realtà come collaboratore del controspionaggio militare. Il 26 giugno gli nacque la figlia Małgorzata. Il 1 luglio visitò la moglie in ospedale. Il giorno dopo fu ricoverato con sintomi di avvelenamento da gas e da sonniferi. Morì il 3 luglio 1951 a Varsavia. Aveva 29 anni. Probabilmente si trattò di suicidio. Tra i motivi del tragico gesto non si escludono il disinganno nei confronti del comunismo e la depressione a causa del ruolo svolto come propagatore del’ideologia. Si pensa anche ad una infelice relazione sentimentale. La morte di Borowski fu un trauma per il mondo letterario polacco, paragonabile al suicidio di Majakovskij 21 anni prima. La leggenda fece di lui la prima vittima del proprio passato comunista.
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Poesie di Tadeusz Borowski tradotte da Paolo Statuti
Canto
Su di noi – la notte. Sul volto stellare
assordito dai bellicosi gridi,
quale futuro potrà mai ricordare
i vincitori e noi – gli asserviti?
Il deserto, la steppa e del mare il viso
calpestiamo, tuona una fucilata,
vanno gli iloti, dei vincitori il grido
e la turba di circensi affamata.
Un canto, la fede dei paria aggiogati,
il segno nemico scosso dal vento,
un metro, un braccio, talleri scheggiati,
e le bilance sempre in movimento.
Non invano il piede la pietra calpesta,
non invano gli scudi, l’armi leviamo,
il braccio gagliardo, la fronte ridesta
e nella lotta arrossiamo la mano.
Non invano il sangue il petto colora,
son sbiancate le labbra, i visi rappresi:
il canto dei paria echeggerà ancora
e di nuovo il mercante userà i suoi pesi.
Su di noi – la notte. Le stelle ardono,
soffoca il cielo mortalmente violaceo.
Vecchi rottami dopo noi resteranno
e dei posteri il sordo riso mordace.
1942
* * *
Lo so, all’improvviso si aprirà il cerchio
del nostro amore. Il movimento brusco
della mia mano ti spaventerà –
allora te ne andrai. Ogni cosa
che hai toccato, perfino il soffio
d’aria, che veniva dalla porta,
che aprivi lentamente –
mi rammenteranno te,
quasi fossero una corda, che
passando accanto, tu avessi urtato…
E con quale suono fremerò
io, che ti ho avuta nelle braccia?
1943-1944
Alla fidanzata
Il cielo coperto di assi, l’orizzonte – una parete umidiccia,
nel bosco dietro il reticolato, gonfio di corrente come fiumana,
si culla il verdeazzurro del fogliame, zufola a tratti la cincia
e il vento spruzza sulle foglie l’azzurra cenere umana.
E’ bello il quadro dell’estate. Come variopinte montagne
di abiti estivi di percalle è il sorgere e il calare del sole.
File di oche vagabonde volteggiano sopra gli stagni
e volano sui pascoli dal robusto salubre odore.
La terra si apre come palmo. Laggiù oltre le vedette
c’è il bosco plumbeo, e nel bosco le rosse fragole profumate,
e in mezzo agli alberi verde-argento le arancioni casette
come un tenue disegno, il sereno, gli scherzi, le risate.
Com’è strano l’amore, dei nostri cuori silenzio e tempesta,
che come rami nel torrente, ci ha gettati nel mondo e ci trascina.
Ecco siamo come bimbi smarriti in un’enorme foresta,
come i bimbi della fiaba la casetta dalle zampe di gallina.
Ma cos’è la paura dell’uomo e il torrente di sangue scoraggiato,
se si deve guardare la notte, come un mugghiante bagliore di brace,
si raggruma la corrente nelle vene e pulsa di sangue il reticolato,
e bruciano le pire umane come mucchi di torce di ragia.
Sfilano i cortei di persone. I vagoni, le camere e il gas.
Per l’acqua, per un sorso d’aria vendono oro ai soldati.
Ecco leggenda, incubo e favola in noi si compiono già
e i posteri non crederanno e di noi saranno nauseati.
Ecco un blocco stipato di carne umana soffocante,
di vivente cenere umana. Comune è la ciotola e la branda,
comuni sono paura e speranza, calura e pioggia sferzante,
e allo stesso modo tremano le mani sul litro di brodaglia.
Ed ecco, esaltatore dell’uomo, giaccio sulla branda della baracca
e nelle dita afferro, come volo d’uccello, leggenda e mito,
ma invano guardo negli occhi umani cercando una traccia.
Ormai soltanto pala e terra, uomo e di brodaglia un litro.
Ormai soltanto il corpo dell’uomo. Ormai soltanto cenere,
ormai soltanto la mole del cielo, traboccante dagli occhi.
Ecco, siamo giunti, estranei l’un l’altro, dall’Europa intera
e seguiamo la stessa strada – per il bosco, per la terra dei morti.
Ormai soltanto il corpo dell’uomo. Copro con le mani il viso
e sento il corpo estraneo. Lo sento come elemento non mio.
Il lirismo si culla in me, come uccello ferito che ardisce
e prima di sfinirsi – chiama, e prima di cadere – cerca un addio.
Ecco il flemmone e il tifo, ecco la camera e il gas,
ecco il fuoco e la cenere – il corpo ignoto al vento.
Ecco nascere l’epos, il tragico tempo chiama.
Copro con le mani il viso. E taccio. Sì, Maria, sto vivendo.
1949
* * *
Così il tuo volto mi si dissolve
e scompare in me come orizzonte,
da cui bisogna allontanarsi. La tua voce,
i tuoi occhi, il sorriso fuggevole
come il vento, quando lambisce il volto,
ancora trema in me e come uccello,
che così lieve e cauto
nell’aria ardisce, quasi
fosse un respiro – vola via da me,
si dissolve e scompare. Invano –
tu sai che il nero del vetro notturno
come la mia vita d’un tempo guardo,
ma tu là non ci sei più. Soltanto
la nebbia, che sale in alto…
1954
* * * per il diario
… e forse bisogna alla sorte futura
darsi come pietra dai monti rotolare
e vedere il mondo come una scultura
con gli occhi morti di pietra può guardare
(C) by Paolo Statuti