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TANA DI VOLPE – Le avventure di don Osvaldo da Silva Ochoa (Volume 1)

Creato il 31 agosto 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

tdvdA Villarosa, paesino dell’entroterra sardo, il Tana di Volpe, alberto di recente apertura, è pronto a ricevere i primi clienti. Ma don Attilio Cocco, il più atteso, non arriverà e Rosa Concas, la cuoca, sarà assassinata. Accanto al suo cadavere, un messaggio di avvertimento lascia intendere che qualcun altro è in pericolo. Al maresciallo Asdrubale Vinci non resta che chiedere aiuto al vecchio amico e neo bibliotecario del villaggio don Osvaldo da Silva Ochoa, il quale metterà da parte i libri, il laboratorio informatico che sta allestendo e gli amati rebus enigmistici per indagare. E mentre il tempo stringe, la marchesa Lodovica Prizzi Bonomi trasforma l’ingresso della propria suite in una barricata di pentole e mobilia…
Un giallo classico, à la Christie, che si dipana tra misteri, delitti e furti di reperti archeologici in una Sardegna fosca e invernale.

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“Un mystery all’inglese, raffinato e inquietante, in una Sardegna metafisica e inconfessata. Sul Tana di Volpe, solitario albergo appena inaugurato ai piedi della montagna, una nevicata implacabile scandisce un vorticoso crescendo di paura collegato a un passato enigmatico che un misterioso killer vuole riportare alla luce. Tra Shining e Gosford Park, l’esordio vibrante di Rina Brundu”.
Danilo Arona

La marchesa Giulia Elena Lodovica Prizzi Bonomi chiuse con una mandata decisa il portone di legno di Villa Aster. Come d’abitudine, si assicurò che fosse davvero sbarrato, premendovi contro i palmi delle mani e pressando col corpo imponente, quindi si strinse nella giacca e sbuffò. Era sempre stata convinta che certe cose occorresse sbrigarle e controllarle di persona perché riuscissero. Anche per questo non aveva esitato a spedire in vacanza Elisa, la cameriera, sin dalla sera prima. Scese i pochi scalini di marmo e s’incamminò verso Vittorio, che l’attendeva con la portiera posteriore della Volvo aperta. L’autista salutò con un inchino appena accennato e aspettò che la donna si accomodasse, senza far cenno di volerla aiutare. Lei si attardò un poco, sollevò il viso e contemplò la cappa grigia e grave di nuvole sature. Di nuovo si strinse nel giaccone e finalmente si adagiò sul sedile.

Vittorio guidò fino a oltre l’imbocco del cancello automatico che dava sulla strada principale, frenò e scese, lasciando l’automobile col motore acceso. Si assicurò che il dispositivo elettronico fosse scattato, quindi risalì in macchina e ripartì.

In realtà non aveva neppure guardato la chiusura, però sapeva che quel gesto avrebbe evitato fastidiose querimonie durante il tragitto e nel tempo a venire. Il traffico di viale Merello e delle altre stradine interne li bloccò per circa tre quarti d’ora. Le automobili, i camion, i pullman, i ragazzi in motorino sbucavano da ogni lato e si rincorrevano in una baraonda di clacson e maleducazione. Passando da via Roma, videro alla loro destra il porto, ripulito ed elegante, con la passeggiata trapuntata dalle palme che svettavano su uno sfondo glauco e melanconico. Le navi della Tirrenia in partenza ostruivano lo specchio dell’acqua, solcato da diverse imbarcazioni che si perdevano all’orizzonte, fino a sfiorare il cielo.

Finalmente furono sulla provinciale, in viaggio verso la montagna.

Non appena l’autista aveva richiuso la portiera, Lodovica si era ritrovata sola e al centro del vuoto che si era creato attorno e dentro di lei. La sua figura di signora anziana, bionda e curata sporgeva dal sedile come un bassorilievo lavorato.

Saranno vent’anni che non metto piede tra quelle dannate montagne, si ritrovò quasi subito a pensare, suo malgrado costretta a ricordare il tempo passato. Mi chiedo se Villarosa sia cambiata. Ne dubito però.

Di sicuro, se Villarosa non era cambiata, lei lo era ancora meno, rifletté. Il fisico poteva essersi appesantito e i riflessi potevano essere leggermente appannati, ma lei sentiva di essere quella di sempre. Sempre la bella figlia del ricco avvocato Edmondo Prizzi, sempre la stessa donna attraente di cui si era innamorato il maturo e scapestrato marchese Angelo Bonomi, sempre la stessa creatura libera che d’impulso lo aveva sposato ed era andata a vivere con lui ai piedi dell’imperturbabile montagna. Quindi, sempre la stessa anima pentita, della cui cronica infelicità il marito si era stancato molto presto.

Nel silenzio del viaggio, d’un tratto Lodovica cominciò ad agitarsi sul sedile. Era a disagio. Dall’abisso della memoria presero ad affiorare ricordi, suoni, colori e profumi fastidiosamente sopravvissuti a quel periodo per fortuna concluso. I profumi dell’inverno, quando soleva uscire dalla portafinestra della camera padronale di Villa La Marmora sul lungo balcone per respirare l’aria fredda della campagna e dei boschetti intorno, mentre si perdeva ad ammirare l’antica cima, dolcemente ondulata, sovente innevata del Gennargentu. Dallo stesso punto ascoltava l’impetuoso scorrere dei fiumi sotterranei, oppure si godeva il vento che soffiava sulle vallate solitarie e selvagge. D’estate invece, quando la natura si faceva florida e superba, poteva distinguere il canto di miriadi di uccelli diversi e l’allegro sciabordio del torrente che si riversava nel vicino lago, mentre lasciava che i suoi sensi fossero storditi dagli intensi effluvi delle peonie, degli oleandri, del timo. In quel tempo, era facile ammirare anche le antiche foreste di lecci delle quote più basse e più in alto le roverelle, gli aceri, l’agrifoglio, i tassi e le macchie di ginepri lungo i fianchi più scoscesi. Nelle giornate limpide, a volte vedeva i grifoni che maestosamente spiccavano il volo dai picchi più alti e planavano con movimenti oziosi e intriganti.

Ma la lucentezza di quelle immagini portava con sé anche tutte le ombre del passato. Ogni ricordo aveva la stessa ambivalenza della quale, col tempo, la montagna era divenuta simbolo: tediosa prigionia e fonte di gioia.

«Fortuna che c’era Alessandro,» si consolò Lodovica «sarei impazzita altrimenti».

Come in quel pomeriggio di maggio quando, ancora presa dai festeggiamenti per il compleanno del figlio, quasi si scontrò con il maresciallo Marcialis nell’ingresso di Villa La Marmora. Il militare teneva il capello in mano e aveva l’aria grave di chi porta nuove molto tristi.

«Signora, mi duole comunicarle che il marchese è morto», le aveva detto.

Come?Morto?

«Sparato, signora», aveva risposto il maresciallo fraintendendo la domanda.

Il cuore di lei si era fermato per un solo istante, il tempo necessario per razionalizzare e apprezzare in pieno le parole dell’altro. Più tardi, i carabinieri le avevano spiegato anche che si era trattato di un fatale errore, ma davvero lei non aveva avuto tempo per indagare più a fondo.

Era primavera, allora, e le preoccupazioni della marchesa Bonomi erano altre. Soprattutto, c’era il problema dell’educazione del figlio, il quale doveva trasferirsi in città per godere di un percorso d’istruzione programmato, a cui il padre si era sempre opposto con determinazione. Il cielo, però, aveva disposto di suo e le sconsideratezze dell’uomo non erano più un impedimento.

Non che Alessandro non ci mettesse molto del suo per farmi penare, ricordò ancora Lodovica. «Dire che da piccolo pareva il ritratto dell’avvocato… con i riccioli biondi, i lineamenti delicati… Mano a mano però è cambiato completamente. Tutto suo padre quanto a imprevedibilità e follia,» considerò seccata.

In effetti, erano stati proprio questi tratti schizofrenici e incontrollabili della personalità del figlio che in quei giorni lontani, più di tutto, avevano spaventato la marchesa, la quale intuì che per vincere la guerra avrebbe dovuto aspettare e concedere un poco per ottenere di più. Finse perciò di accettare senza troppe riserve le uscite pomeridiane del ragazzo, il quale aveva fatto un’abitudine del vagare per foreste e dell’arrampicarsi sui picchi di montagna, e invece lo controllava grazie all’aiuto di fidati pastori che curavano le tancas[1] e le altre proprietà. Ma la scaltrezza e la determinazione del giovane la costrinsero a desistere ben presto. Non era quello il modo, no, ma su un punto Lodovica non aveva dubbi: l’imperativo era abbandonare Villa La Marmora, venderla per dimenticarla e tornare subito in città, nella casa di famiglia. A questa decisione Alessandro si era dovuto arrendere, riuscendo a strappare soltanto la promessa di un’ultima estate tra le amate montagne. Nel frattempo, lei avrebbe sistemato gli affari e preparato il ritorno a Villa Aster. Lodovica intravedeva finalmente la conclusione della segregazione forzata, di una vita austera tra le valli desolate, e forse – chissà – l’inizio di un’esistenza normale. Lei, in fondo, aveva solo trentanove anni ed era giovane abbastanza. Per sperare ancora, per dimenticare.

Da allora, di tempo ne era trascorso. Alessandro si era laureato, aveva avviato uno studio a Milano e si era sposato. La marchesa Prizzi Bonomi però non aveva potuto dimenticare nulla della primavera in cui aveva perso il marito. Come, nulla aveva dimenticato dell’ultima estate che avrebbero dovuto trascorrere in quella dimora e che, incredibilmente, era diventata autunno, inverno, ancora primavera e poi di nuovo autunno, fin quasi alle soglie dell’ennesimo inverno, quando in fine erano riusciti a chiudersi alle spalle il cancello di Villa La Marmora e a fuggire da quel borgo disgraziato, per non metterci più piede, mai più. No, la marchesa Prizzi Bonomi non aveva potuto dimenticare nulla di quel fatidico tempo di mezzo.

La Volvo correva incontro alla foschia dell’orizzonte mentre davanti a Lodovica sfilavano i campi bruciati della piana intorno a Cagliari. Il cielo, intanto, era diventato una cappa soffocante. Iniziò a piovere. Rade gocce d’acqua cominciarono a stillare sull’asfalto impolverato. Vittorio guidava in silenzio ma, di tanto in tanto, lanciava una furtiva occhiata alla nobildonna. Era pensierosa, si accorse, con la fronte aggrottata e la mascella tesa, come non l’aveva vista mai. Per un attimo gli balenò il pensiero che la marchesa avesse paura. Strano. Non riusciva a pensare a nulla o a nessuno che potesse spaventare Giulia Elena Lodovica Prizzi Bonomi.

L’auto infilò un sentiero secondario e fece sobbalzare la donna:

«Vittorio!».

«Mi perdoni, signora marchesa. Colpa di queste stradacce interne,» commentò l’autista. Lodovica non rispose. Non era sua abitudine criticare l’operato delle persone di servizio. Era convinta che se lavoravano per i Prizzi non avevano bisogno di suggerimenti e in ogni caso preferiva spiegarsi con lo sguardo: di solito era sufficiente. Purtroppo, doveva anche ammettere che in quel frangente non era lei: era davvero troppo nervosa. Sentì accelerare i battiti del cuore e decise di imporsi la calma. Suo figlio glielo ripeteva spesso di controllare l’emotività e aveva ragione. Alessandro era rimasto perplesso quando lo aveva avvertito che sarebbe stata via per alcuni giorni, rifiutandosi di indicare la meta di quel viaggio improvviso. Gli aveva concesso di usare il telefonino per i casi d’emergenza, però si era fatta promettere che non avrebbe tentato di cercarla perché, gli aveva detto, desiderava stare sola per rilassarsi dopo le fatiche dell’estate trascorsa a Milano con i nipotini. Lui non aveva avuto nulla da obiettare, ma aveva insistito per sapere dove sarebbe andata. La madre era stata irremovibile.

«Alessandro non dovrà mai venire a sapere di quella storia. Né della lettera. Fortuna che l’ho fatta sparire,» si consolò la donna. Mostrala alla polizia, loro ti potranno aiutare, le avrebbe detto. E a lei pareva di vederlo mentre le gironzolava intorno come un serpente insidioso nel tentativo di farla capitolare.

Ma lei non avrebbe ceduto e, al ciel piacendo, la polizia non sarebbe mai stata tirata in ballo in quella faccenda, rifletté. La lettera era arrivata quattro giorni prima ed era stata spedita da Villarosa, dentro una banale busta bianca. Conteneva un unico foglio battuto a macchina e un breve messaggio con il quale, tra l’altro, don Attilio Cocco si scusava del vedersi costretto a rompere la promessa di non cercarla più. Il sacerdote spiegava di averlo fatto perché era sorta in quei giorni una grave questione riguardante la faccenda che lei, Lodovica, ben conosceva e in relazione alla quale aveva necessità di parlarle al più presto. Don Attilio la pregava quindi di incontrarlo, prenotando subito nel nuovo albergo Tana di Volpe, a Villarosa, dove avrebbe alloggiato lui stesso dal 25 al 30 novembre. La missiva non era firmata a mano, ma questo non aveva impensierito Lodovica, che invece si era chiesta soltanto cosa avesse spinto l’uomo a contattarla dopo tutto quel tempo. Lui sapeva bene del suo desiderio che nessuno si mettesse in comunicazione con lei per qualsivoglia motivo in relazione alle cose di Villarosa o di Villa La Marmora e tanto meno in relazione a quella specifica faccenda. La donna scacciò con irritazione il pensiero successivo che, più che turbarla, la infastidiva. Le riusciva faticoso ammettere che, nonostante avesse sempre tentato di dimenticare, certi ricordi fossero sempre vivi, presenti e determinati a non abbandonarla mai. La prima reazione dopo la lettura era stata, comunque, in linea con il suo carattere. La missiva l’aveva liquidata come uno scherzo di cattivo gusto. Poi la riflessione si era fatta spazio. Uno scherzo? Ma di chi? Nessuno, nessun altro poteva sapere. Solo loro tre. Che lei o lui avessero parlato? E perché, dopo tanti anni? Rimorsi di coscienza? Eppure avrebbero avuto soltanto da rimetterci, perché tutti erano stati coinvolti alla stessa maniera, tutti erano stati responsabili allo stesso modo e il tempo trascorso non rendeva credibile il ravvedimento e il perdono. No. Lodovica sentiva che c’era dell’altro, che c’era un mammutzone[2] dispettoso che si stava divertendo alle sue spalle ed era proprio questa misteriosa presenza malefica che la infastidiva e la intimoriva ad un tempo. Pensò anche che avrebbe potuto tentare di rintracciare don Cocco, ma proprio non sapeva dove e l’assenza di un qualsiasi recapito o numero di telefono privato indicava, a suo modo di vedere, che il sacerdote non voleva essere contattato altrimenti che di persona. Non che avesse tutti i torti e meno corrispondenza c’era, meglio era. Ad ogni modo, non appena ebbe finito di leggere, accartocciò ben bene la lettera e la busta e senza esitazione le bruciò nell’enorme camino di marmo del soggiorno. Rimase lì, ferma, ad assicurarsi che la carta fosse tutta consumata e poi rimescolò la cenere.

Per nessuna ragione avrebbe voluto che qualcun altro venisse a sapere dell’esistenza del messaggio. Inoltre, gli unici elementi importanti erano stati già memorizzati: il nome e il numero di telefono dell’albergo. Lodovica aveva rimuginato sulla faccenda per due giorni, senza parlarne con nessuno. Avrebbe volute ignorare quel malaugurato avvertimento, eppure sapeva che non poteva. Scandalo! Questa parola le risuonò subito in testa. Non erano certo le ricadute sulla sua vita che la preoccupavano, ma doveva pensare alla carriera politica di Alessandro. Era stato candidato dal partito, da leader carismatico qual era, alla presidenza regionale nelle elezioni di primavera, e un simile coinvolgimento gli avrebbe tarpato le ali per sempre. Uno scandalo avrebbe anche mandato all’aria per sempre i mille progetti su cui la madre aveva fantasticato e faticato nei duri anni della segregazione tra le valli selvagge, avrebbe reso vano ogni sacrificio fatto, ogni istante di sofferenza e solitudine. Questo no, non poteva e non doveva accadere. Lodovica non lo avrebbe permesso. Nulla, nessuno avrebbe distrutto quello che aveva costruito per Alessandro. Non fino a quando lei avrebbe saputo impedirlo.

Se c’era qualcosa da fare, lei era nella posizione di farlo e lo avrebbe fatto. Qualunque cosa fosse e a qualunque costo. Lodovica decise. Chiamò il Tana di Volpe e prenotò una camera per il periodo dal 25 al 30 novembre. Si informò anche se don Cocco avesse già riservato una stanza negli stessi giorni. Sì, certo, qualcuno della parrocchia del sacerdote li aveva contattati, confermò la voce al telefono.

La lettera diceva il vero, quindi.

La fragile speranza di un brutto scherzo si dileguò presto e la verità colpì Lodovica come la sferzata fredda e congelante del vento quando la bufera infuria tra le vallate più esposte del Gennargentu.

La pioggia si era infittita, ma la Volvo inghiottiva silente la strada. Vittorio lanciò un’ennesima occhiata alla marchesa, che ancora si agitava. I movimenti nervosi erano quasi impercettibili, persino per lui che era stato il suo autista degli ultimi dodici anni e che ne conosceva bene la postura solitamente autoritaria. La testa era rivolta verso il finestrino, e lo sguardo fisso nel vuoto. L’uomo si domandò che cosa stesse architettando la vecchia. Vittorio aveva ricevuto disposizione di non rivelare a nessuno la destinazione della signora, salvo andare a riprenderla il giorno convenuto. Anche Elisa non era stata messa al corrente del viaggio, quando la sera prima la padrona le aveva concesso una vacanza non programmata. La cameriera non aveva saputo nulla neppure dell’arrivo della lettera. Lodovica era in giardino il giorno in cui la missiva era arrivata, e il fattorino gliel’aveva consegnata di persona.

Arrivati al bivio di Gairo, Vittorio sterzò a sinistra. Nel buio imminente, i fari dell’auto illuminavano i fiocchi di neve che cominciavano a cadere. Era da una vita che Lodovica non vedeva la neve e quello spettacolo ebbe il potere di calmarla un po’. La nevicata le richiamò alla memoria il silenzio e la solitudine, lo strano sibilo della buriana e lo stormire delle foglie dei roveri allampanati del giardino di Villa La Marmora, ma anche i giochi in compagnia di Alessandro.

Se Villarosa dovesse essere cambiata, mi resterà comunque il rumore del vento, pensò Lodovica più rilassata. Anche il firmamento in fondo sarà sempre quello. Nelle notti chiare mi bastava alzare lo sguardo al cielo per ritrovare la forza. Sono sicura che accadrà come allora. In verità mi pare di stare già molto meglio. Davvero mi sembra di essere finalmente pronta a lottare ancora. Volendo, a uccidere ancora».

[1] Terreni di proprietà recintati.

[2] Termine generico per indicare una persona portata al male e al dispetto.

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Rina Brundu is an Italian writer and publisher who lives in Ireland. Author of several books and hundreds of articles and literary reviews, she has a keen interest in digital writing and journalism, training and operations management. See also www.rinabrundu.com and www.rinabrunducritique.com (in English).


Product Details

  • File Size: 3442 KB
  • Print Length: 477 pages
  • Simultaneous Device Usage: Unlimited
  • Publisher: IPAZIA BOOKS; 1 edition (August 27, 2015)
  • Publication Date: August 27, 2015
  • Sold by: Amazon Digital Services, Inc.
  • Language: Italian
  • ASIN: B014KXNBWQ
  • Source: http://www.ipaziabooks.com


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