Tangeri – Europa: andata e ritorno in “Partire” di Tahar Ben Jelloun

Creato il 15 luglio 2013 da Chiarac @claire_com_

La settimana scorsa ho fatto un breve giro nella Kasbah di Tangeri. Una delle porte di accesso alla Kasbah dà sul mare (si chiama per l’appunto Bab al-Bahr, La porta del mare) e affaccia sul nuovo porto di Tangeri, in costruzione (per costruirlo hanno buttato giù, tra le altre cose, anche la vecchia “porta” della frontiera che risaliva al periodo dell’Interzona. Non capisco perchè l’uomo, quando costruisce qualcosa di nuovo, deve distruggere il suo passato. Poi ci chiediamo perchè ci sentiamo sempre tutti scollegati come degli atomi impazziti).

Tra erbacce incolte e rocce, in silenziosa contemplazione del mare e dell’orizzonte stavano seduti gruppetti di giovani e anziani. Alcune bambine giocavano tra le rocce, il vento sharqiyy che scompigliava loro i capelli.

Proseguendo qualche centinaio di metri più avanti, lungo le mura che costeggiano il mare a destra, e la città a sinistra, dove si trovano invece le rovine di alcune tombe fenicie, a picco sul porto e sul mare, ho visto la stessa scena: sul prato incolto e tra i massi levigati dal vento erano seduti uomini anziani, donne con bambini e giovani. Lo sguardo verso il mare, perso oltre l’orizzonte in direzione della Spagna: il profilo della costa spagnola si stagliava nettissimo in quella giornata di forte vento.

Questa immagine mi ha fatto tornare alla mente la prima pagina di Partire, un romanzo di Tahar Ben Jelloun (Partir, 2007; Bompiani, 2008; traduzione dal francese di Anna Maria Lorusso). La scena iniziale è ambientata presso il famoso Café Hafa, poco distante dal luogo in cui mi trovavo io:

Gli altri [uomini], seduti sulle stuoie e con le spalle al muro, fissano l’orizzonte come a interrogare il proprio destino. Guardano il mare, le nuvole che si confondono con le montagne, e aspettano l’apparizione delle prime luci della Spagna. […] ciascuno entra nel proprio sogno con i pugni stretti. Solo il maestro del tè, il proprietario del posto, e i suoi servitori sono esenti dall’incantesimo, intenti come sono a preparare e a servire con discrezione le bevande, andando e venendo da una terrazza all’altra senza disturbare il sogno di nessuno.

Partire è un romanzo sull’immigrazione. Anzi: è un romanzo sulla tragedia umana dell’immigrazione i cui protagonisti sono Azel, un giovane di bell’aspetto, laureato in legge ma senza lavoro e deciso a “svoltare” in qualche modo, e sua sorella Kenza, altrettanto avvenente, innamorata dell’amore. Ciò che li accomuna è il fortissimo desiderio di andarsene dal Marocco, e sono disposti a fare qualsiasi cosa “pur di vedere questo paese solo in cartolina”, anche l’indicibile.

(Dalla casa in cui vivo, ogni mattina si può scorgere il profilo della Spagna)

L’atmosfera che pervade tutto il libro infatti è cupa e deprimente, anche quando Ben Jelloun introduce il personaggio della piccola Malika (una delle centinaia ragazze-gamberi costrette a sgusciare gamberetti destinati all’Europa per ore e ore, al punto che le dita delle mani diventano trasparenti), verso cui è impossibile non provare tenerezza e rabbia allo stesso tempo.

Quei 14 chilometri che separano il Marocco dalla Spagna, delirio e speranze dei tanti che vogliono abbandonare quel Paese che li ha abbandonati, si trasformano in un fossato destinato a inghiottire i migranti e i loro sogni.

La Spagna, l’Occidente in generale, diventa nel libro simbolo di un riscatto sociale, ma anche terra in cui i desideri devono diventare realtà, pena l’insuccesso, la sconfitta, il ritorno umiliante in Marocco, tra la derisione degli amici e la delusione della famiglia.

Nel libro però, lo stretto tratto di mare che separa l’Africa e l’Europa è anche un passaggio che risucchia l’umanità, che distrugge l’equilibrio personale dei tanti coraggiosi decisi a farcela e a trasformare in realtà le proprie chimere.

Non definirei questo libro un capolavoro: mentre lo leggevo, sull’aereo per venire a Tangeri, molte immagini di violenza un po’ gratuite mi hanno disturbata. Inoltre, è scritto con uno stile narrativo crudo e non particolarmente accurato. Tuttavia lo scrittore è riuscito a rendere piuttosto bene lo scollamento tra sogno e realtà sperimentato da Azel e Kenza, la solitudine della migrazione, l’indifferenza dell’Europa.

Questo libro è stato scritto nel 2007, poco prima quindi che in Europa sperimentassimo la crisi economica. Da allora molto è cambiato: l’Europa, una volta meta privilegiata per i migranti provenienti dall’Africa e dall’Asia, si è tramutata in un’ incubatrice di sogni perduti e spezzati. Chi prima partiva, ora ritorna. O sperimenta nuove rotte migratorie, più lontane, dove la crisi ancora non è arrivata. Chissà se qualcuno ci scriverà un libro. Chissà come si intitolerà.

* Le foto sono le mie.


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