I terzomondisti sono incorreggibili e peggiorano di epoca in epoca, sempre più lamentosi ma con meno motivazioni economiche e politiche a sostegno delle loro esercitazioni pauperistiche, finalizzate a mettersi a posto la loro coscienza e ad umiliare l’intelligenza collettiva. Il cosiddetto terzo mondo di venti o trent’anni fa non è lo stesso di oggi (ammesso che sia corretto definirlo ancora così), anzi, ha fatto un bel passo avanti, garantendo una superiore capacità di sopravvivenza ai soggetti che lo abitano. Eppure costoro, empaticamente vicini agli ultimi della terra, almeno a chiacchiere, tentano ancora di commuoverci con le loro storie strappalacrime sulle periferie mondiali che crepano per denutrizione e carestie, innescate dalla voracità delle civiltà più sviluppate, le quali vivono rapinando le risorse di questi sventurati o consumando ben oltre le loro esigenze immediate. Ma le cose sono molto cambiate da qualche decennio in qua. Uno degli argomenti preferiti da tali finti rivoluzionari antisistema, avanzi di sessantottismo e di luogocomunismo ad oltranza, è quello della esponenziale crescita delle disuguaglianze tra i popoli e della forbice che si sarebbe allargata tra benestanti e indigenti del pianeta, a causa delle multinazionali saccheggiatrici o dello stesso capitalismo finanziarizzato, ultimo stadio della loro mancanza di cervello. In base a queste teoresi la ricchezza si concentrerebbe ormai nelle mani di poche persone potentissime mentre il resto dell’orbe starebbe scivolando nelle privazioni. Molto peggio insomma di un certo passato precapitalistico o degli esordi dello stesso capitalismo. Come ama ripetere a vanvera un certo Mario Capanna: “il 2% dell’umanità possiede circa la metà delle ricchezze del pianeta, mentre il 10% arriva a possederne l’85%”, magari citando anche statistiche dell’ONU (la quale aggiusta i dati a seconda degli indirizzi politici dei suoi committenti, del resto lo ha già fatto in diverse occasioni – allarmi sul global warming o sull’esaurimento del petrolio – tutte campagne di “terrorizzazione” pensate per impedire alle potenze emergenti di raggiungere standard di sviluppo equivalenti a quelli della superpotenza dominante). Chissà dove si colloca lui, pancia mia fatti Capanna, col suo vitalizio che, da quanto recentemente dichiarato, gli è utile per portare avanti queste sue battaglie politiche che però nessuno gli ha chiesto in quanto non servono a niente. Servono soltanto ad incrementare il suo ego ipertrofico che si gonfia con l’aria fritta venduta al prossimo. Insomma, i dati dicono tutt’altro sul grado di benessere raggiunto dalla specie umana in questo primo scorcio di XXI secolo, eppure Capanna respinge la realtà perché teme di restare disoccupato o di doversi scusare per gli abbagli presi da quando sparla, dagli OGM agli isterismi ecologistici. Innanzitutto, come ha scritto Porro su il Giornale “La ricchezza piuttosto è cresciuta. Lo storico Angus Maddison ha dimostrato che il Pil pro capite medio globale è esploso da 467 ‘dollari internazionali del 1990’ (un’ipotetica valuta costruita in modo tale da avere lo stesso potere d’acquisto di un dollaro nel 1990) a 7.614 nel 2008…Non basta. In sessant’anni sul nostro pianeta soggiornano la bellezza di cinque miliardi di esseri umani in più (erano 2,5 miliardi nel 1950). Il che vuol dire che in poco meno di un secolo il mercato ha creato una quantità di risorse e beni un tempo inimmaginabili. Come la volete chiamare questa, se non ricchezza. E per di più diffusa…la sintesi è che la torta è cresciuta molto, non tutti hanno la stessa fetta, ma le briciole sono diventate molto nutrienti”. Il merito non è certo del mercato, come scrive Porro, anche lui perversamente ideologizzato nella sua esposizione filo-liberista (anche questa molto arretrata e ruffiana), ma è innegabile che la dinamica capitalistica sia alla base di quello che ci sta intorno hic et nunc. I bisognosi di adesso non sono i cenciosi d’antan, la loro vita non è così miserabile, e per quanto possa essere ancora dura e difficile, i pezzenti dei nostri giorni godono di strumenti o oggetti che un indigente di cento anni fa nemmeno si sognava. Stessa tesi intelligente viene riportata nel saggio di Simonetti contro la decrescita: “I più poveri di oggi sono molto più ricchi dei ricchi di un tempo. Il dato è così schiacciante che c’è, in effetti, da chiedersi perché mai ancora tanta gente ne dubiti; forse perché il ricordo dei tempi passati addolcisce sempre la realtà, oppure perché le testimonianze artistiche soffrono di una distorsione di classe:
siamo indotti a dimenticare la povertà dilagante di altri tempi anche grazie alla letteratura, la poesia, i racconti e le leggende che celebrano coloro che vivevano in condizioni di benessere e tacciono su coloro che vivevano nel silenzio della povertà. L’epoca della miseria è stata mitizzata e può anche essere ricordata come l’età dorata di una bucolica semplicità. Ciò che in realtà non fu mai.
E si ingannerebbe anche chi pensasse che una volta l’ineguaglianza di reddito fosse minore di oggi: è vero il contrario. Tutti gli studi mostrano che la povertà si è ridotta e che la crescita del reddito ha condotto a minori disuguaglianze. Francesco Guicciardini, a proposito della Spagna cinquecentesca, scriveva che «fuora pochi Grandi del Regno e’ quali vivono con grande sontuosità, si intende che li altri vivono in casa con grandi strettezze», e va detto che la Firenze dei suoi tempi non era molto diversa. In generale, le disuguaglianze di reddito e ricchezza nell’Europa preindustriale erano spaventose. Per dare un’idea: a Firenze, nel 1427, il 10% più ricco della popolazione possedeva il 68% della ricchezza, contro il 5% detenuto dal 60% più povero; percentuali simili a Lione nel 1545 (53% e 21% rispettivamente). A Erfurt, nel 1511 il 7% più ricco deteneva il 66% della ricchezza totale. A Pavia, nel 1555, il 20% delle famiglie deteneva il 90% delle scorte di frumento. In Inghilterra, nel 1688, il 5% delle famiglie possedeva il 28% del reddito nazionale, mentre il 65% delle famiglie si spartiva il 21%; e così via. I poveri, a loro volta, oggi sono enormemente diminuiti in percentuale sul totale della popolazione. Ecco un esempio fra i molti: ancora nell’Inghilterra vittoriana le «persone in difficoltà e molto povere» ammontavano addirittura all’86,9% della popolazione, mentre nel 1955 i «poveri» si erano ridotti al 7% del totale. Uno sviluppo analogo è riscontrabile ovunque.
Certo, i poveri esistono ancora, e sono sempre troppi; ma ce ne erano assai di più una volta. La miseria era una piaga endemica nell’Europa preindustriale. Come ha spiegato Cipolla, «il ’mendicante’ della società preindustriale era l’equivalente del ’disoccupato’ della società industriale, ma stava molto peggio»; e soprattutto, il mendicante, il miserabile, il pitocco, erano onnipresenti, come pure la loro eterna compagna, la fame. Solo per fare qualche esempio: a Bologna, nel secondo Settecento, «quasi un quarto della popolazione era disoccupato» e i mendicanti erano ben 16.000 (su una popolazione di circa 70.000 persone: più di un quinto, e in una città dalla ricchezza quasi proverbiale). A Padova nel 1529, scriveva G.B. Segni, «ogni mattina si ritrovavano per la città vinticinque e trenta morti di fame sopra i lettami delle strade» (aggiungendo: «e va’ dove vuoi, che non s’incontrano per le strade se non tristezza, malinconia, debilità, mestizia, miseria e morte»). Nel 1683, in Francia un testimone parlava di «migliaia di poveri… con visi neri, lividi, magri come scheletri, in gran parte appoggiati su dei bastoni e trascinantisi come potevano, per domandare un pezzo di pane».96 Si tratta della stessa, millenaria immagine della fame, tramandata tal quale nei secoli da Omero fino all’Illuminismo (e altrove, anche più in là)”.
Ecco come vanno le cose concretamente, nonostante Capanna e i capannelli di svitati come lui che vorrebbero riportarci indietro all’età della pietra.