Se ci si immerge anche solo sbadatamente nel delirante chiacchiericcio che, dal bar al parlamento, satura l’ego di quest’individui “in astinenza da comando”, si potrebbe blandamente ricavare un grossolano trait d’union che ne colleghi il borbottio. Non sarà allora difficile inciampare in una tra le tante parole d’ordine che vanno oggi per la maggiore. E’ il caso del “fare” in tutte le variegate flessioni che stanno ormai impestando ogni ambito dell’esistente: il “partito del fare”, la “cultura o la filosofia del fare”, il “decreto del fare”. “Avere sempre qualcosa da fare” è oggi la preghiera più in voga per scongiurare la propria greve compagnia, quasi un augurio a non incontrare sé stessi lungo la strada della vita, un’altra virtus dormitiva che marcia speditamente verso l’inautenticità. Anche solo pronunciandola, la parolina magica attrae le lusinghe di chi, volendosi solo compiacere della propria attività, ammicca al “fare” altrui. L’homo faber e la vita activa si sono deformati in uno stato di diritto: l’uomo “fatto”. Una vita “iper-activa” che a furia di fare narcotizza l’uomo nella spersonalizzazione (una vita activa, quella contemporanea, che non c’entra quindi niente con la vita activa dell’umanesimo: un'esistenza coinvolta ed impegnata nelle vicende della polis in virtù di un ideale platonico che si proponeva di ritrovare la dignità dell’uomo nell'idealizzata mondanità -studia humanitatis -). Tutto ciò che è “positivo” infatti, memore anche di quell’orientamento filosofico che ebbe larga diffusione nel XIX secolo, allude a sfumature di significati quali “preciso”, “certo”, “reale”, “utile” e “concreto”; nella lingua corrente il termine indica anche “colui che ha senso della realtà”, “che è d’immediata utilità”. Convessamente, viene di conseguenza, il pensiero diventa automaticamente “negativo”, un inutile fardello da amputare, mortale ostacolo al principio di realtà: conta ciò che mostri di essere e non ciò che sei! Lo dice anche quel bignami tascabile dell’anglomania puritana, quell’uomo fumetto americano – le aggettivazioni peraltro elidono - di Batman Begins: “non è tanto chi sei, quanto quello che fai, che ti qualifica”. Se fossimo invece nell’antica Grecia e godessimo del teatro di quel tempo – le Lenee e le Dionisie Urbane -, quel “fare” oggi così tanto qualificante, indicando essenzialmente una posizione di bisogno e di privazione, verrebbe lasciato a coloro che con la necessità hanno sviluppato maggior confidenza: i meteci e gli schiavi.
...tanto per fare. “Neg-otium” dice che il principio era ...
Creato il 12 novembre 2013 da LostileliberoSe ci si immerge anche solo sbadatamente nel delirante chiacchiericcio che, dal bar al parlamento, satura l’ego di quest’individui “in astinenza da comando”, si potrebbe blandamente ricavare un grossolano trait d’union che ne colleghi il borbottio. Non sarà allora difficile inciampare in una tra le tante parole d’ordine che vanno oggi per la maggiore. E’ il caso del “fare” in tutte le variegate flessioni che stanno ormai impestando ogni ambito dell’esistente: il “partito del fare”, la “cultura o la filosofia del fare”, il “decreto del fare”. “Avere sempre qualcosa da fare” è oggi la preghiera più in voga per scongiurare la propria greve compagnia, quasi un augurio a non incontrare sé stessi lungo la strada della vita, un’altra virtus dormitiva che marcia speditamente verso l’inautenticità. Anche solo pronunciandola, la parolina magica attrae le lusinghe di chi, volendosi solo compiacere della propria attività, ammicca al “fare” altrui. L’homo faber e la vita activa si sono deformati in uno stato di diritto: l’uomo “fatto”. Una vita “iper-activa” che a furia di fare narcotizza l’uomo nella spersonalizzazione (una vita activa, quella contemporanea, che non c’entra quindi niente con la vita activa dell’umanesimo: un'esistenza coinvolta ed impegnata nelle vicende della polis in virtù di un ideale platonico che si proponeva di ritrovare la dignità dell’uomo nell'idealizzata mondanità -studia humanitatis -). Tutto ciò che è “positivo” infatti, memore anche di quell’orientamento filosofico che ebbe larga diffusione nel XIX secolo, allude a sfumature di significati quali “preciso”, “certo”, “reale”, “utile” e “concreto”; nella lingua corrente il termine indica anche “colui che ha senso della realtà”, “che è d’immediata utilità”. Convessamente, viene di conseguenza, il pensiero diventa automaticamente “negativo”, un inutile fardello da amputare, mortale ostacolo al principio di realtà: conta ciò che mostri di essere e non ciò che sei! Lo dice anche quel bignami tascabile dell’anglomania puritana, quell’uomo fumetto americano – le aggettivazioni peraltro elidono - di Batman Begins: “non è tanto chi sei, quanto quello che fai, che ti qualifica”. Se fossimo invece nell’antica Grecia e godessimo del teatro di quel tempo – le Lenee e le Dionisie Urbane -, quel “fare” oggi così tanto qualificante, indicando essenzialmente una posizione di bisogno e di privazione, verrebbe lasciato a coloro che con la necessità hanno sviluppato maggior confidenza: i meteci e gli schiavi.
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