Nel numero di febbraio del mensile dei Padri Comboniani, “Nigrizia", il giornalista Marco Simoncelli prova a leggere assieme padre Francesco Bernardi, missionario della Consolata, la realtà del Tanzania dall’osservatorio di Bunju.
Un osservatorio che, per essere Africa,senza tema di smentita, possiamo dire abbastanza privilegiato.
Perché a Bunju, periferia in espansione della popolosa Dar es Salam, è sorto da alcuni anni ormai, grazie all’impegno dei missionari della Consolata e di alcuni benefattori, un Centro Missionario, il cui scopo, accanto all’accoglienza di alcuni gruppi di studio e di preghiera, è anche quello di occuparsi in prevalenza della formazione di giovani.
Giovani, che arrivano un po’ da tutte le parrocchie delle diocesi, più o meno vicine a Dar es Salaam.
Gli argomenti della discussione nel dialogo tra il giornalista e il missionario (per altro giornalista anch’egli in quanto direttore del periodico missionario “Enendeni” in lingua swahili) sono il ruolo dei missionari in Tanzania, quello della Chiesa locale e le aspettative della comunità tanzaniana.
Il Tanzania, come ben sanno coloro che si occupano di “cose” d’Africa, ha un buon numero di cristiani, tra cattolici e protestanti (colonizzazione tedesca prima e britannica poi), ma ha anche un altrettanto buon numero di musulmani. Mentre pochi sono ormai i praticanti delle religioni tradizionali.
Ma i numeri non chiariscono, perché in particolare i musulmani del Tanzania non hanno mai voluto che, in un censimento, comparissero le distinzioni numeriche di carattere religioso. Nemmeno adesso che si sta lavorando alla nuova Costituzione e che si dovrà poi indire un referendum per l’approvazione.
E’ una questione d’equilibrio tra le differenti confessioni, si dice in giro, che risale per certo ai tempi dell’indipendenza del Paese e alla guida illuminata di Julius Nyerere.
Padre Bernardi, pur concordando nelle linee generali su questa versione, scorge una differente motivazione politica sottesa all’assenza di numeri precisi in quanto, a suo avviso, la componente musulmana del Tanzania ,alla resa dei conti, calcoli alla mano, non gradirebbe affatto risultare essere in minoranza.
Infatti, i musulmani chiedono ultimamente ai loro governanti addirittura un tribunale islamico con norme orientate alla sharia.
E questo fa vedere rosso alla Chiesa cattolica locale in quanto sorge immediatamente il problema della poligamia, che essa combatte,con tutti i mezzi possibili, assieme alla stregoneria e alla discriminazione degli albini.
Piaghe endemiche e terribili, queste ultime due, che sono difficilissime da estirpare.
Il mondo missionario ( i suoi uomini e le sue donne), attualmente è in realtà per i più, che lo osservano piuttosto da lontano, un retaggio della politica coloniale del passato, che oggi ha senso solo nella misura in cui si adopera a fare crescere la Chiesa locale, perché cammini poi con le sue gambe e, ancora, per il tutto quanto può impegnarsi a fare nella formazione della gioventù del luogo e non solo.
Penso, per esempio, all’emancipazione femminile in un contesto maschilista per eccellenza come quello africano.
Tema scottante.
Se poi il contesto è musulmano, c’è sul serio da sudare le proverbiali sette camicie per ottenere un pur modesto risultato d’ascolto e di cambiamento.
Certe tradizioni culturali,com’ è noto, sono dure da scalfire.
E qualcuno potrebbe dire, e non a torto, che forse sarebbero da rispettare, trattandosi di cultura “altra”.
Diciamo che pur non mancando in Tanzania le vocazioni religiose ( negli ultimi mesi dell’anno ci sono state alcune ordinazioni proprio di giovani missionari della Consolata tanzaniani) la formazione dei giovani, e non solo dei giovani, conta molto per creare sopratutto dei catechisti.
Questi, infatti, sono utilissimi in contesti dove la logistica quasi inesistente fa continuamente problema (strade spesso impraticabili a seconda delle stagioni), per cui non sempre il sacerdote può essere presente, come vorrebbe, e questo specie se si tratta di comunità rurali, lontane dalle città.
Lavorare, allora, molto e con i giovani - sottolinea padre Bernardi al suo interlocutore - ma cercare di fare capire agli stessi che l’essere un catechista e, forse un domani perché no anche un sacerdote, non è un privilegio ma semplicemente un servizio.
E come tale deve essere praticato.
E fare in modo che questi, i giovani, acquisiscano mentalità critica nel corso del percorso di formazione per saper leggere l’attualità del contesto in cui vivono e quello dove saranno chiamati magari un domani a operare.
I limiti della Chiesa locale- evidenzia il missionario- sono quelli di una chiesa tradizionalista, una chiesa conformista. Una chiesa che stenta persino a comprendere quanto ripete di continuo Papa Francesco. E cioè d’essere Chiesa povera con i poveri.
Pone, inconsciamente, innanzi a sé il privilegio e stenta a farsi ponte.
Come può allora essa, se non cambia in proprio, insegnare agli altri lo spirito di servizio?
E questo lo ribadiscono sovente alcuni vescovi locali (ma non tutti) ai loro sacerdoti.
E comunque l’ascolto, da parte di chi dovrebbe essere tutto orecchi, risulta debole.
E, nel cambiamento da mettere in atto da parte della Chiesa locale, c’è da includere – aggiunge padre Bernardi - pure uno studio approfondito della Parola.
Non limitarsi cioè, da sacerdoti quali si è, alle pratiche religiose consuete come, ad esempio, la sola lettura del breviario.
Insomma -conclude – c’è molto da fare. Davvero molto. Occorre che sacerdoti, laici impegnati (catechisti o volontari) e, in particolare i giovani, i più giovani, inizino da subito a eliminare tutte le scorie di una mentalità basata sui privilegi.
Da qui solo può partire il cambiamento. Ma un cambiamento non taroccato.
Cambiamento che, affiancato alla testimonianza di vita, è il solo che dà poi senso e significato riconosciuti all’impegno missionario nel mondo d’oggi.
Marianna Micheluzzi (Ukundimana)
In alto giovani al Consolata Mission Centre di Bunju-Dar es Salaam in una giornata di ritiro .
(foto di Francesco Bernardi)