10 DICEMBRE – La presenza di tante importanti personalità a questo convegno, tenutosi presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Verona nella giornata di ieri, testimonia l’importanza e l’apprezzamento per l’opera del prof. Cavalieri, presentandone anche l’ultimo studio. Il rettore, prof. Nicola Sartor, ha ricordato la sua figura in particolare per il suo senso dello Stato e per l’interesse e la consapevolezza del ruolo delle pubbliche istituzioni, criticate spesso ingiustificatamente in questi anni. Paolo Cavalieri difendeva soprattutto il diritto all’accesso agli studi universitari per tutti, con rimozione delle barriere economiche all’ingresso. Si rischia oggi di sottovalutare il ruolo dell’università pubblica, mentre la sua figura ne testimonia la necessità. Egli, anche negli ultimi anni di vita e nonostante la malattia, continuò a frequentare l’università con interesse e affetto, cercando sempre di trasmettere con passione le proprie conoscenze agli studenti. Un esempio per tutti.
La prof.ssa Donata Gottardi, direttrice del Dipartimento di Scienze Giuridiche, ha ricordato Cavalieri come una figura storica dell’Università di Verona, che ha frequentato per decenni, in tempi in cui l’università era un ambiente con più risorse economiche e meno difficoltà organizzative e burocratiche, che consentiva maggiori tempi per il confronto sui temi dell’attualità, come sull’articolo 41 della Costituzione in tema di utilità sociale della proprietà. La tavola rotonda verteva sul regionalismo, un interesse particolare del prof. Cavalieri, che fu a lungo professore ordinario di diritto pubblico presso la facoltà di Economia. E’ stato autore di molti studi, fra cui in particolare l’ultimo, oggi presentato: Lineamenti di diritto costituzionale della Regione del Veneto.
Il prof. Valerio Onida è stato professore di Cavalieri e ne ha parlato come di un “figlio accademico”. Da laureato in scienze politiche, si è occupato sempre più di diritto costituzionale a partire dagli anni Sessanta, un periodo controverso che ha dato anche frutti avvelenati ma che ha prodotto un avvicinamento fra il mondo accademico e gli studenti. Era considerato una brava persona, estraneo alle logiche di potere diffuse nel mondo accademico. Il tema del regionalismo era, nella sua prima fase, riconosciuto come un aspetto significativo dell’architettura costituzionale italiana, in quanto si riteneva che le autonomie fossero un elemento indispensabile per una democrazia, anche in un periodo in cui, per decenni, le Regioni sono rimaste solo una previsione della Costituzione, salvo per quelle a Statuto speciale. “Oggi invece, in questa fase di transizione –afferma Onida- c’è da dubitare che si coltivi ancora questo senso dell’autonomia fra gli studiosi di architetture costituzionali, mentre si è diffusa una considerazione delle autonomie come spartiacque tra i compiti dello Stato ed i poteri all’interno della politica. In questo momento; l’autonomismo è in crisi nella considerazione degli studiosi e anche nell’opinione pubblica. Oggi le Regioni sembrano un ingombro, un elemento di disturbo dell’azione politica dello Stato, anche per via del discredito che colpisce in generale la politica”. Il rapporto fra la politica nell’immaginario collettivo e le autonomie locali è influenzato da vari aspetti. Ci si chiede vi siano meno sedi di poteri di veto sull’azione amministrativa, il che però comporta meno soggetti decisori ma anche meno controlli sulle decisioni.
Continua il famoso costituzionalista: “L’esercizio di un potere di veto come contrasto aprioristico al compimento di decisione, come esercizio il più ampio possibile di un potere è in contrasto con la visione di cinquant’anni fa, secondo cui il centralismo, obiettivo polemico al tempo, impoveriva i processi decisionali, da avvicinare alle realtà territoriali. Un’altra idea diffusa è che le istituzioni siano troppo complesse e vadano semplificate per velocizzare il processo decisionale della pubblica amministrazione. Spesso nella realtà amministrative vi sono complicazioni fini a se stesse, ma il bersaglio si concentra semplicisticamente solo sulle autonomie, senza guardare nello specifico ai provvedimenti che è necessario prendere. La giusta istanza di semplificazione dovrebbe fare lo sforzo di andare a vedere nel sistema qual è l’utilità e il senso di ogni parte del procedimento amministrativo e della pubblica amministrazione, attraverso dibattiti che facilitino scelte equilibrate”. La complessità della società richiede un processo decisionale arricchito di tutte le diverse necessità, la semplificazione non può risolvere veramente i problemi istituendo nuovi nodi e problematiche, come nella lotta alla corruzione nella pubblica amministrazione che ha prodotto una moltiplicazione di responsabilità e di burocrazia, oppure compiendo tagli generalizzati che possono solo far scomparire interessi e obiettivi sociali. “La semplificazione non può portare a un ipercentralismo negativo, bisogna sempre dare una risposta complessa ma non complicata a una realtà complessa, altrimenti ci si limiterebbe ad ignorare le differenze”. Non a caso, sottolinea Onida, il principio di uguaglianza sta a significare che devono scomparire le discriminazioni, ma che bisogna tenere conto delle differenze esistenti.
Un terzo elemento che mostra l’insofferenza verso le autonomie è il rapporto fra istituzioni e politica. In passato si riteneva che le forze politiche dovessero articolarsi sul territorio per rispondere alle esigenze territoriali, infatti un sistema politico troppo centralizzato non era adeguato a rappresentare una società complessa. Poi, però, da questa idea di partiti come elementi di raccordo fra istituzioni e società ci si è scontrati con una realtà di partiti non federali, elemento di centralizzazione, anzi oggi trasformati e considerati mezzi di affarismo e trasformismo. La politica locale e regionale è considerata senza senso, autoalimentantesi, fatta solo di interessi di casta. L’antipolitica inevitabilmente si trasforma anche in una polemica nei confronti dell’articolazione istituzionale dello Stato. Il senso delle autonomie come costruzione dal basso di una democrazia più ricca e più libera è venuto meno nell’opinione pubblica, gli enti locali rientrano sempre più fra gli elementi da tagliare, specie in seguito ad inchieste giudiziarie che li coinvolgono. “Se la politica dovesse decidere solo sulla base degli umori della gente e dei sondaggi –conclude- è facile che il regionalismo venga eliminato o ridimensionato, come una foresta istituzionale da disboscare. Le istituzioni però sono legate alla storia delle comunità e quindi bisogna recuperare il senso delle autonomie locali”.
La prof.ssa Marta Cartabia, giudice della Corte Costituzionale, si è concentrata sugli aspetti che emergono dal forte contenzioso fra Stato e Regioni di cui si occupa la Corte, in particolare dopo la riforma del Titolo Quinto, un periodo vissuto anche dal prof. Cavalieri come una fase di importante cambiamento di mentalità al riguardo delle autonomie locali. Circa l’80% dei casi all’attenzione della Corte riguarda il contenzioso Stato-Regioni, segno del cambiamento che stanno vivendo le Regioni e su questi casi la professoressa si è molte volte confrontata col prof. Cavalieri, che voleva così mettere a disposizione della Corte le sue importanti conoscenze in una materia disordinata come il diritto regionale. Nei suoi libri, in particolare nel suo noto Manuale di diritto regionale, anche la Corte può trovare elementi di coerenza del sistema, altrimenti in continua evoluzione. “La Corte Costituzionale sta assistendo a una riduzione del suo ruolo a una specie di arbitro fra le parti –precisa- con un cospicuo numero di giudizi in via principale che finiscono per rinuncia delle parti o per cessazione della materia del contendere perché la norma impugnata viene rapidamente abrogata o modificata in senso conforme alle richieste dello Stato. Questo fatto, in crescita dal 2001, getta un’ombra sul significato del giudizio della Corte, divenuto arma esibita da entrambe le parti per darsi forza in vista di un accordo consensuale”. La riforma dell’articolo 127 della Costituzione ha rimosso il controllo preventivo sulle leggi regionali, ponendo le Regioni in posizione paritaria come legislatore rispetto allo Stato, ma senza un ritorno al passato sarebbe opportuno riflettere sull’attuale assenza di una sede extragiudiziale che, senza sospendere l’efficacia delle leggi regionali contestate dallo Stato, permetta di risolvere prima i conflitti con una mediazione, così anche da stemperare in altra sede la conflittualità su tante piccole questioni di scarso rilievo costituzionale. “Un secondo fattore di grave confusione è imputabile ai legislatori nazionale e regionale, cioè a una mancanza totale di legislazione adeguata, con una bassissima qualità delle leggi, con molti rinvii e concatenazioni, che rendono l’ordinamento e anche il giudizio confuso, senza una certezza nella ricostruzione del dato normativo. Costume diffuso ormai è quello di una legislazione per tentativi, per cui si promulga una legge e poi la si corregge per evitare un contenzioso. Molte leggi peraltro sono di conversione a decreti-legge che poi vengono emendati. L’idea del sistema delle fonti insegnato nelle università sembra oggi rappresentabile invece con un quadro di Pollock, un intrico difficilissimo. Le semplificazioni sono necessarie ma è necessario fare un lavoro meticoloso, sfrondare foglia per foglia dell’albero, senza proclami drastici”.
Un terzo elemento è il fattore-crisi: il contenzioso Stato-Regioni è cambiato di segno dopo la famosa lettera dell’Ue che sollecitava vari obiettivi di politica economica. Da allora si sono susseguiti interventi che hanno il carattere della legislazione emergenziale, con obiettivi importanti di contenimento della spesa pubblica e di impulso alla crescita economica, ma la Corte non ha voluto rispondervi con una “giurisprudenza emergenziale”, per cui anche in situazioni emergenziali lo Stato è tenuto a rispettare il riparto di competenze previsto dalla Costituzione. Nonostante ciò; la Corte deve comunque giudicare su una legislazione emergenziale che tocca fortemente le competenze delle autonomie locali, dato che lo Stato non può ottenere risultati pieni senza agire sugli altri livelli di governo, che semmai dovrebbero agire all’unisono. C’è una torsione della giurisprudenza su questo tema, con una significativa espansione della potestà statale in materia di coordinamento della finanza pubblica. La finalità della legge dello Stato di contenimento della spesa gioca sul ripiano della competenza legislativa come elemento di centralizzazione delle decisioni su sempre più temi. “La Corte –conclude Cartabia- da un lato intende preservare l’integrità della garanzie delle autonomie con la scelta radicale di non sospendere le garanzie costituzionali, dall’altro lato è soggetta alle spinte della crisi che portano a interventi statali su molti aspetti. E’ urgente non perdere lo sguardo proprio del prof. Cavalieri sulle autonomie, evitando l’inseguimento dei singoli problemi. Gli studiosi devono restituire la capacità di sintesi sulle questioni essenziali che sono una delle caratteristiche del contributo del prof. Cavalieri al diritto regionale e che consentono di avere le categorie per le decisioni future”.
Il prof. Antonio D’Andrea, ordinario di diritto pubblico presso l’università di Brescia, ha rimarcato la contrarietà di Cavalieri a ogni tendenza di autoritarismo statale, contrario a ogni ostacolo ai poteri dei governanti. “Incapace di qualsiasi arroganza altrimenti diffusa nell’ambiente accademico, è stato in grado di comunicare i profondi valori in cui credeva così come la sua umanità” ha sottolineato. Il rapporto fra Stato e enti territoriali andrebbe liberato da un appesantimento dovuto ad equivoci legati al discredito di fondo diffuso sulla Costituzione del 1948. Essa aveva promosso lo Stato regionale, lasciando al potere centrale il controllo sull’attuazione dell’autonomia, ma il potenziamento delle autonomie locali doveva essere legato a una riduzione del ruolo delle istituzioni pubbliche in vista di una maggiore sussidiarietà sia verticale che orizzontale. Oggi si pensa alle istituzioni pubbliche come meno efficienti e più corrotte dei soggetti privati. L’autonomia statutaria non ha portato a un migliore funzionamento delle Regioni, ma il rafforzamento delle competenze regionali avrebbe dovuto superare le difficoltà del procedimento legislativo statale, ci sarebbe voluta una maggiore legittimazione dei governi regionali come nei comuni. “In realtà –conclude- lo svilimento del consiglio regionale concretizza l’illusione di poter fare a meno del controllo sulle decisioni da parte degli organi rappresentativi”.
Il prof. Eduardo Gianfrancesco, ordinario di diritto pubblico a Roma, come coautore del libro presentato nel corso del convegno ha infine parlato dei tanti soggetti coinvolti nella sua redazione, sia in ambito universitario che nel Consiglio Regionale del Veneto. Ci si chiede se si tratti di una crisi ciclica o definitiva del regionalismo, in quanto c’è sempre stata una corrente di pensiero contraria alle autonomie, anche nell’assemblea costituente, ma alcuni elementi fanno pensare a una sua crisi permanente. “Molti giornalisti e giuristi assumono una linea profondamente antiregionalista –evidenzia Gianfrancesco- alcuni propongono una Regione leggera come semplice divisione amministrativa di stampo francese. Nelle crisi cicliche precedenti c’è sempre stata una ripresa delle funzioni delle Regioni, mentre oggi emerge una tendenza al ripiegamento, che in parte contrasta con la Costituzione la quale, all’articolo 5, valorizza il decentramento”. Il modello francese però contraddice quello adottato dalla Costituzione del 1948, in particolare per la potestà legislativa delle Regioni, primo elemento qualificante e differenziante fra le Regioni stesse. “Materie come la sanità e l’assistenza pubblica non sono pensabili come mere differenziazioni organizzative, se vediamo le profonde differenze territoriali esistenti. Oggi, semmai, si pone un problema di dimensione amministrativa della regione come organizzazione, talora trascurata negli Statuti, e di centralizzazione delle competenze statali sull’organizzazione, che ha limitato l’autonomia delle Regioni su molti aspetti”. Il limite della disciplina costituzionale è quello di non essere direttamente applicabile ma di richiedere un’attuazione legislativa che su alcuni aspetti manca o è poco chiara, come per gli artt.117 e 119. Non è chiaro il ruolo degli enti locali, mentre si potrebbe fare riferimento alle soluzioni degli Stati federali oppure alla disciplina delle Regioni a statuto speciale.
Enrico Vanzo
Articoli Collegati:
- Gli organi di autogoverno delle magistrature speciali, evoluzione di un…
- Tra legittimo impedimento e (illegittima) prerogativa
- Partecipate nella tempesta fra politica e mercato
- Meno province = meno servizi?