Tazzina di sakè. Mia amata Yuriko - intervista ad Antonietta Pastore

Creato il 12 febbraio 2016 da Tazzina @tazzinadi

Antonietta Pastore, Mia amata Yuriko, Einaudi

Mia amata Yuriko è un romanzo delicato e profondo come sanno esserlo solo le emozioni e le opere d'arte più autentiche della vita. Confluiscono, in questa storia vera - e verosimile solo nelle parti in cui la memoria dell'autrice ha dovuto essere completata da piccoli inserti di immaginazione - diversi elementi, tutti accurati e importanti. Il lettore, alla fine della lettura, resta legato alla bellezza elegante delle ambientazioni ma soprattutto ai personaggi e scopre anche se stesso come in uno specchio: si possono ritrovare temi decisivi come il contrasto tra il destino (qui rappresentato, fondamentalmente, dalla guerra e dalla bomba atomica che ha colpito Hiroshima il 6 agosto del 1945) e la scelta individuale. La difficile concordanza tra l'amore per un'altra persona e il rispetto per sé. La capacità di sopportare il dolore, la vergogna e la determinazione. Fino all'illuminazione finale che fa entrare la luce in tutta la storia e, senza paura di svelare troppo, si può dire che abbia a che fare con la piccola, ma ineguagliabile gioia della consapevolezza di avere fatto la cosa giusta. In tutto questo, nelle parole che compongono questo romanzo breve e perfettamente composto, c'è il tocco della scrittrice e traduttrice Antonietta Pastore che descrive di come abbia raccolto la vicenda di Yuriko. Si capisce bene quali passaggi, quante attese e quanta delicatezza d'animo abbia richiesto la tessitura di una trama impeccabile proprio perché reale. Si sente una voce sì delicata, ma anche fortissima. Strutturata da una dote naturale e insieme, si può intuire, dal pluriennale lavoro di traduttrice dal giapponese e dalla assiduità dell'autrice con questa cultura – sappiamo infatti che ha abitato in Giappone per sedici anni sia per amore sia per lavoro.
Personalmente, dal momento che Murakami Haruki è uno degli autori che più hanno influenzato la mia esperienza di lettrice e la mia vita, non posso non notare una analogia di sentire tra l'autrice e traduttrice dei suoi lavori e Murakami stesso, come immagino degli altri autori da lei tradotti. A un certo punto, nel corso della lettura, ricordo proprio di aver pensato: il mistero di Yuriko assomiglia al mistero chiuso in certi personaggi del mio autore giapponese preferito! Ma nel romanzo di Antonietta Pastore ci ho letto un pezzetto di qualcosa in più: Yuriko è reale, è una donna come tante, come me. Una donna da cui imparare come si decidono le grandi cose della propria esistenza, e anche quelle minime. Infine, ho capito leggendo che è possibile che un no o un sì detti al momento opportuno ripaghino di un'unica, ma vitale cosa: la dignità che ci rende umani.
C'è da aggiungere che di per sé la lettura di questo libro è un privilegio, come lo è la meticolosità intellettuale ed emotiva che fa sì che arrivino, confezionate con purezza estetica, racconti belli e utili come questo. Ci aggiungo però un mio personale privilegio, che voglio condividere con i lettori affezionati di questo blog: la possibilità di rivolgere a un'autrice che leggo e seguo da tempo nel suo lavoro, alcune domande.
Mia amata Yuriko è un romanzo che tocca diversi temi, ma quello che, al termine della lettura, pare più evidente è il valore della scelta. Un nodo che si scioglie solo alla fine di tutto il racconto, quasi a svelare un mistero, che è quello della personalità e della vita stessa di Yuriko, una donna che appare subito forte ma anche, inizialmente e al tempo stesso un po' “strana”. Può raccontarci come lei, Antonietta Pastore, abbia invece scelto di trasmettere ai lettori questa storia? Dal capitolo finale del libro, sappiamo infatti che tutto è nato dopo i tragici eventi di Fukushima del 2011. 
Le scelte, a volte, si impongono, diventano una necessità. Per fortuna non tutte sono drammatiche come quella che deve fare la protagonista del libro, Yuriko, davanti a un dilemma da cui dipende la sua dignità di donna e di persona. Nel mio caso, la decisione di raccontare la sua storia è nata sì da un’urgenza reale, però il mio ruolo è solo quello della testimone. Negli anni in cui vivevo in Giappone, la mia esistenza per un breve momento ha incrociato quella di Yuriko, e quest’incontro ha lasciato in me una traccia, come un punto in sospeso in fondo alla mia coscienza. A lungo ho pensato che la sua vicenda meritasse di essere narrata, ma al tempo stesso mi dicevo che non era il caso di riesumare eventi molto lontani, molto tristi, sui quali era forse preferibile lasciar calare il silenzio. Nel marzo del 2011 però, quando ho visto che la tragedia di Fukushima provocava danni − che non giudico collaterali −, analoghi a quelli che già si erano constatati dopo Hiroshima e Nagasaki, ho sentito che era venuto il momento di parlare di Yuriko. Perché a distanza di decenni altre persone, altre donne, erano vittime di ingiustizie simili a quella subita da lei. Avendola conosciuta, mi sentivo in qualche modo autorizzata, anzi, quasi tenuta, a raccontare la sua storia, come se fossi stata scelta a testimone, appunto, di una realtà sconcertante, mai divulgata. 
Per la stessa natura delle esplosioni di Hiroshima, quello della bomba atomica che ha colpito gli abitanti di quelle zone del Giappone pare essere un tema a lunga percorrenza. La storia di Yuriko ci parla di tempi lentissimi, di attese apparentemente senza fine e di indeterminatezza. Si può immaginare che il suo lavoro abbia richiesto molto rispetto e capacità di far sedimentare il materiale narrativo di cui disponeva per dargli ancora più valore: è così? E quanto è determinante l'attesa, nella vita come nella scrittura? 
Come ho appena detto, ero a conoscenza della storia di Yuriko da molti anni, la prima parte mi è stata rivelata nell’82. Era una vicenda di un valore e di una gravità tali che, anche dopo aver iniziato a scrivere sul Giappone, dubitavo di avere il diritto di raccontarla. Prima del marzo 2011, è stato soprattutto questo dubbio a trattenermi dall’imbastire anche solo un progetto di narrazione. Rischiavo di inoltrarmi in un terreno che aveva una sua sacralità, di oltrepassare una soglia che nemmeno il ruolo di testimone mi autorizzava a profanare. Non ero abbastanza motivata per infrangere un tabù: toccare l’argomento Hiroshima. A parte questa considerazione, sono contenta di aver lasciato che il silenzio calasse per tanto tempo sulla storia di Yuriko, di averla relegata in un angolo della mia memoria − senza però dimenticarla. Perché col passare degli anni e con l’accumularsi delle esperienze ho acquisito, come la maggior parte delle persone della mia età, “la cognizione del dolore”, senza la quale non è possibile raccontare la sofferenza altrui. La consapevolezza della drammaticità intrinseca alla vita mi ha aiutata a illuminare una storia “sedimentata” in una zona oscura della mia mente, dove rischiava di sprofondare al di là della soglia dell’inconscio. Non dico che debba essere così per chiunque, ci sono persone − e scrittori − che questa consapevolezza, bene o male che sia, la raggiungono relativamente presto.
Nel romanzo appare anche la contraddizione tra il silenzio e la parola. Come se l'uno non potesse fare a meno dell'altra, proprio come i due innamorati protagonisti della storia. I noti silenzi che contraddistinguono il carattere dei giapponesi, qui si mostrano come antesignani però di una parola finale che si fa necessaria. Il silenzio sembra proprio il territorio in cui la parola, come un seme, impara a germogliare. Nel caso del romanzo, attraverso una lunga lettera che rivela il senso stesso dei fatti accaduti. Si può dire che anche la letteratura abbia questo ruolo? Come uno svelarsi di contenuti che maturano solo nel silenzio?
Sì, certo. Basta pensare a Jorge Semprún, che per lungo tempo non ha voluto raccontare, anzi ha cercato di dimenticare, il periodo trascorso a Buchenwald. Per lui era la condizione per poter continuare a vivere, come spiega nel libro La scrittura o la vita. Sentimenti analoghi credo che abbiano indotto molte vittime di Hiroshima e Nagasaki a non parlare della propria esperienza, se non in tempi recenti. Ma naturalmente non si può generalizzare: ci sono autori − quelli appartenenti alla cosiddetta “letteratura della bomba atomica”, il cui massimo rappresentante è Hara Tamiki − che già pochi mesi dopo l’agosto del ’45 hanno scelto di scrivere delle esplosioni nucleari e delle conseguenze che hanno avuto sulla loro vita. Nel caso di Yuriko, tuttavia, il silenzio mantenuto fino all’ultimo era forse strumentale al suo bisogno di proteggere l’amore che ha continuato a nutrire per il marito. E non è stata lei a romperlo alla fine.
Domanda inevitabile: quanto il suo lavoro di traduttrice ha influenzato il suo stile di scrittura? Consiglierebbe a un aspirante scrittore di imparare anche a tradurre da un'altra lingua?
Dopo l’uscita di Mia amata Yuriko, più volte mi sono sentita dire che la mia scrittura è “molto giapponese”. Non capisco bene cosa significhi, dato che ho tradotto autori molto diversi fra loro − Natsume Soseki e Murakami Haruki sono stilisticamente agli antipodi. Forse quest’osservazione si riferisce alle atmosfere che troviamo nei romanzi dei narratori classici moderni − quali Soseki, appunto, o Tanizaki −, atmosfere che il mio romanzo, considerata l’epoca in cui si svolge gran parte della vicenda, probabilmente evoca. Posso dire però che non sono esente dall’influenza di Murakami, perché uno dei temi a lui più cari − il senso di perdita e il rimpianto per quello che non si potrà mai più ritrovare − è sempre stato nelle mie corde, e forse per questo motivo la storia di Yuriko mi ha così profondamente commossa quando ne sono venuta a conoscenza. Riguardo al consiglio di provare a tradurre qualcosa prima di mettersi a scrivere, no, non lo ritengo molto utile. Tradurre, da qualsiasi lingua, non è una cosa facile, è già un mestiere in sé e rischia di assorbire tutte le energie. Inoltre, è ovvio che la traduzione è un’ottima scuola di scrittura, ma sono due cose diverse, avere talento per la prima non implica necessariamente che si riesca a fare bene la seconda. Ci sono scrittori eccellenti che non hanno mai tradotto una riga in vita loro, così come ci sono traduttori bravissimi che non sanno dar vita a una storia, a dei personaggi, veri o immaginati che siano. E poi ci sono gli scrittori di professione che traducono − come Murakami Haruki − e i traduttori di professione che scrivono, come me. Un’attività non esclude l’altra, possono alternarsi a ritmi che variano da persona a persona. 
Quello di Yuriko pare un destino che la connota soprattutto in quanto donna. Quasi come se i diritti umani, quando si tratta di persone di sesso femminile, assumano una valenza più sfumata. Attraverso una storia d'amore, il romanzo ci spiega anche questo: come le donne, a Hiroshima ma anche altrove nel mondo, abbiano subìto un carico di dolore morale diverso rispetto a quello degli uomini e in questo risiede anche la forza del personaggio. Pensa che racconterà ancora di donne, come ha già fatto in precedenza nei suoi lavori?
È vero che in tutte le crisi sono le donne a pagare il prezzo più alto, sia nello spirito che nel corpo, ma questa discriminazione non avviene impunemente per nessuno, anche se non sempre se ne percepisce subito la portata. L’infelicità di una donna, soprattutto quando è causata da un sopruso, da un’ingiustizia, si irradia sull’ambiente che la circonda e ne riduce le potenzialità, lo spegne. Così alla fine qualche danno ne deriva a tutti, anche se spesso la gente − in primo luogo gli uomini, ma non soltanto loro − non se ne rende conto e continua a infliggere alle donne lo stesso trattamento iniquo. È quello che succede a Yuriko, vittima soprattutto delle convenzioni sociali. Quanto a raccontare ancora di donne, vorrei farlo. Non riesco a immaginare di narrare una storia il cui protagonista sia un uomo, forse perché ho tendenza a scrivere in prima persona.