Ho passato un’intera notte a piangere. Di uno di quei pianti disperati e inconsolabili che credevo appannaggio dell’adolescenza. Lacrime che crollavano pesanti e non riuscivo a fermare. Gabriele mi abbracciava forte e io piangevo ed ero piccolissima, con la testa incastrata tra la sua spalla e il suo collo.
Lui cercava di consolarmi, parlandomi con voce dolce e sicura. E mi diceva cose che in quel momento mi sembravano incredibilmente belle – e tristi al contempo – e non riuscivo a far altro che continuare a piangere, satura di insopportabile disperazione.
Poi, mi sono decisa e mi sono alzata per andare via, perché con quel promemoria davanti agli occhi non avrei potuto che seguitare a piangere, ancora e ancora. Parlavo e la mia voce era interrotta da lacrime convulse. Adesso non riesco a farmene una ragione, per quello che provo e perché io sono… Insomma, lo sai cosa intendo, anche se quella parola non riuscirai mai a farmela pronunciare. Lui, sull’uscio di casa sua, mi ha abbracciato ancora forte e mi ha mormorato in un orecchio: Anch’io, Julie. Anch’io.
E’ stata la sua dichiarazione d’amore. Anch’io – a mio modo – gliene avevo appena fatta una.
Una volta a casa, ho preso il taccuino, quello su cui ero solita trascrivere le impressioni e i propositi e le malinconie. Negli ultimi mesi, l’ho sempre tenuto con me, per non perdermi niente, per trattenere gli attimi troppo veloci e le parole che rischiavano di scivolare via. L’ho aperto e vi ho trascritto alcune delle cose che Gabriele mi aveva detto quella notte. Cose che in quel momento mi facevano soffrire ma che, forse, in futuro, a ritrovarle su quelle pagine, m’avrebbero dato conforto.
Ho continuato a piangere fino al primo chiarore di un mattino che si annunciava cupo e piovoso come il mio umore e ciò che ci sarebbe stato dopo.
Ancora una manciata di settimane; poi, non so.