Tel Aviv, la città dove non lavora nessuno

Creato il 19 novembre 2013 da Patrickc

Una città dove tutti sembrano estremamente rilassati. Qualche parola e qualche foto per raccontarne l’atmosfera

“Sembra che non lavori nessuno, vero?”. Naturalmente non è proprio così,  in questa città dolcemente epicurea, affacciata sul Mediterraneo e scaldata da un clima benevolo, lavorano in tanti. Ma la frase della nostra amica, che a Tel Aviv vive (e lavora), metteva assieme in un colpo solo i tanti piccoli pezzi di un puzzle che avevamo raccolto al sole di fine ottobre e non sapevamo riassumere. Avevamo alcune immagini in testa, come la bella spiaggia sempre affollata e i locali e i caffé pieni a tutte le ore su Sheinkin, l’ex via ribelle della città. Ai tavolini, persone di ogni età e incredibilmente belle, alternative e alla moda che chiacchieravano rilassate, mentre addentavano piatti vegani. Tutte cose che facevano sembrare l’Italia e Bologna datate, vecchie, povere. E piene di persone affaticate e impegnate in cose di poco conto, come lavorare. Poi c’erano quei ragazzi atletici che saltavano sulle onde con il loro kite surf, oppure correvano a tutte le ore sul lungomare, anche quando scendeva il buio. Forse erano gli stessi che si sarebbero poi tuffati nella notte animata fino a tardi, avrebbero affollato i bar e i ristoranti nuovi e cool dove o-prenoti-o non-entri come Oasis oppure  quelli vecchi, tarlati e pieni del fascino dipinto dagli anni. Tutte cose che ti facevano pure sentire un po’ in colpa per essere andato a letto a mezzanotte. E, insomma, in quella frase disegnata mentre eravamo seduti al Port Said –  un movimentato tapas bar sommessamente hipster e stipato di vinili –  c’era molto di falso e molto di vero.

Tutti corrono, a tutte le ore
(n.b. per fare un esperimento ho scattato tutte le foto con instagram)

Perché Tel Aviv è una dimensione a parte, un altro Paese rispetto a Gerusalemme e al resto d’Israele. E per questo richiama studenti, ragazzi che hanno appena finito il lungo servizio militare e si vogliono prendere un periodo di pausa o un intero anno sabbatico. Chi ha sufficienti risorse e spirito d’avventura parte per un lungo viaggio. Gli altri, invece, vanno a Tel Aviv. Altri ancora studiano, qua. E infine c’è chi lavora nei tantissimi locali notturni, nei bar, nei ristoranti e magari il pomeriggio lo passa in spiaggia o al caffè. Tutto questo  dona  una strana atmosfera a gran parte della città, vista almeno dagli occhi di un viaggiatore. Un’atmosfera creativa e rilassata, che fa dimenticare che è un Paese comunque particolare, i soldati armati alla stazione del bus o le ragazze in divisa (mi restano in testa soprattutto loro) che rientrano a casa dopo la giornata in caserma. Un’atmosfera che fa dimenticare anche i tanti attentati che l’hanno colpita in un passato non così lontano e che le hanno incollato ricordi dolorosi, che ancora faticano a sbiadire, specie nella mente di chi non è mai stato in questa città.

Piazza Bialik, di Yoav Lerman
(da Flickr – creative commons attribution non commercial)

La spiaggia e il mare sono splendidi. I palazzacci un po’ meno (foto di Patrick Colgan)

C’è musica su Rothschild

Stencil su Sheinkin. Come non essere d’accordo?

Dai cibi più semplici come questo Labaneh con pomodori, a quelli più elaborati,
la città è un paradiso per i vegetariani (foto di Patrick Colgan)

Eccellente colazione (vegetariana) al cafè Bialik

Le strade di Tel Aviv

Ma non è solo l’atmosfera a rendere speciale la città. Tel Aviv, anche se è una stramba accozzaglia di stili messi assieme in modo un po’ disordinato, è bella. A suo modo. C’è il lungomare, brutto, con i profili dei grandi alberghi che incombono sulla spiaggia e il mare cristallino. E poi ci sono dei quartieri pieni di case un po’ vecchie e sciupate che raccontano storie differenti. Da qui, un po’ all’improvviso, prendono vita larghi viali alberati attraversati da piste ciclabili e accompagnati da belle case Bauhahus, con le loro forme regolari e le vetrate luminose. Ci si imbatte in Sheinkin quasi per caso, seguendo il flusso del passeggio. E si scopre il piccolo parco, i tavolini all’aperto, le panchine ‘per due’ e le file di vetrine eleganti e posti rimasti sempre uguali, come il caffè Tamar, che hanno visto questa strada cambiare pelle più volte. Si sbuca nella perfezione fuori dal tempo di piazza Bialik prima di arrivare in affascinanti angoli più moderni, come piazza Habima: il teatro e l’auditorium si affacciano su un giardino urbano che è una piccola oasi di colori nella città, oltre che – se fai attenzione – una piccola sintesi della natura di Israele. E’ bello scendere i gradini di legno, sedersi. E scoprire che solo lì, in quei pochi metri quadrati, si sente un leggero sottofondo di musica classica: è una specie di segreto che si condivide con chi è seduto dall’altra parte di quest’angolo verde.

Habima square (foto di Patrick Colgan)

Habima square, by night (di Patrick Colgan)

Le uniche cose che ti fanno rabbia, quando sei a Tel Aviv, e incrinano la rilassatezza che sembra permeare questa città, sono il non aver abbastanza tempo per restarci. E il non avere abbastanza soldi. Perché è una città cara, carissima. Ma se la strategia di sopravvivenza è affidarsi all’economico hummus che si gusta nel quartiere yemenita, mi adeguo volentieri.

Si dice… verde come un falafel? Kalboni, nel pieno del mercato, è consigliatissimo!

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