L’insensatezza del momento mi fa guardare dentro la mia sacca, tengo sempre qualcosa per le emergenze, questo momento è un’emergenza, sento che il genere umano sta toccando il fondo. Mi prendo una birra in lattina e me l’apro. Le bollicine si fanno sentire ovunque e zittiscono quei quattro uccelli che volano sopra di me. Ne bevo un sorso, scende nella gola accarezzandola lievemente e mi sento subito meglio. Se pensate che sia innaturale bere una latta di birra alle sei del mattino, prima domandatevi se sia naturale che due persone si alzino prima del sorgere del sole e aspettino nel freddo e nella foschia di una campagna un autobus pieno di gente incazzosa e silenziosa. Non esiste, ad ognuno la propria insensatezza, il proprio modo di prendersi in giro. Poi ecco i fari, distanti, lenti. Come gli occhi di un essere infernale. La metro e gli autobus, secondo me, servono ad inscatolare noi umani per gli alieni, così quando arriveranno per mangiarci saremo già belli chiusi e pronti da aprire con un apriscatole. L’autobus è quasi sopraggiunto, butto giù tutta la birra e rimetto la lattina vuota dentro la sacca, infatti alla non-fermata non c’è neppure un cestino e le cose per terra non le butto. Non sembra, ma anche uno che sbevazza alle sei del mattino segue un suo specialissimo codice morale. Poi, lo specialissimo momento, il climax, il deus ex machina che agisce anche alla mattina presto, l’autista non ci vede, come potrebbe, siamo corpi scuri sotto nessun lampione, ad una non-fermata nella foschia di una notte di fine gennaio. L’autista non ci vede, la corriera mi passa oltre, non si accorge minimamente di me, io sono solo uno che sbevazza alle sei di mattina e non vuole inquinare l’ambiente. Alla signora va peggio. La signora che si era esposta più di me per fermare il mezzo pubblico, viene centrata in pieno e trascinata sotto le ruote. Non sentii nessun grido, di solito chi grida è sempre chi assiste all’incidente, e in giro non c’è nessuno. Non sentii nemmeno il botto del corpo sul metallo della corriera. Nemmeno il suono del corpo che veniva trascinato sull’asfalto. Nemmeno il suono delle ossa che si spezzavano, nessuna delle duecento ossa del corpo umano fece una piega, si spezzarono direttamente. Un albero che cade nella foresta e non c’è nessuno per sentirlo. A parte che poi, il suddetto albero non fa rumore. La corriera si ferma, scende l’autista con in mano il cellulare. Scendono anche un paio di passeggeri, tutti assonnati. Io avevo mancato la morte per un paio di centimetri, ora sotto il mezzo pubblico sarei potuto esserci io, senza fare nemmeno troppa fatica. Invece no, ero ancora in piedi, pronto per il prossimo round, in attesa che suoni il gong per altri tre minuti sul ring con la vita e tutti i suoi trucchetti e i colpi sotto la cintura. Un vecchio si fece verso di me e mi chiese se stessi bene. Lo guardai e gli risposi: “Un cazzo. Ma in fondo è una cosa normale. È mattina e sono ancora qua con voi”.
Andrea Knulp Roma