Tema: Closer

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Svolgimento
"Don't come closer or I'll have to goHolding me like gravity are places that pullIf ever there was someone to keep me at homeIt would be you..."Eddie Vedder - Guaranteed
Aeroporto Malpensa: una donna con il cappotto viola mi passa davanti inciampando sui miei piedi allungati - sono disteso e ho la testa appoggiata allo schienale - e questo riesce a distrarmi da quello che osservo da un momento imprecisato subito dopo aver superato i controlli; scusi, le dico, alzando una mano, o forse lo penso soltanto e glielo dico con gli occhi e non me ne rendo conto, dopotutto è lei quella distratta, perché dovrei scusarmi io, e poi è stata lei a fare in modo che mi distraessi da quello che stavo osservando con insistenza, sono felice di non averle chiesto scusa; comunque sia, lei si volta verso di me e non dice niente, non fa neanche una smorfia, un’espressione, qualcosa che mi faccia capire che è infastidita dalle mie gambe troppo distese, niente, e il nostro rapporto si conclude così, con uno sguardo distratto, indifferente,  ognuno può tornare a fare quello che stava facendo prima; ormai, però, ho perso il mio punto di riferimento (o forse non ne avevo uno), sono stanco, il viaggio da Madrid a Milano è stato lunghissimo, vuoto, come se avessi lasciato i miei pensieri su una poltrona della sala d’attesa dell’aeroporto spagnolo, che aspettavano il volo successivo al mio, magari arrivano da un momento all’altro, tornano al loro posto dentro la mia testa, tornano ad essere quelli di sempre. In ogni caso tornano a casa con me.Dallo zaino tiro fuori il mio diario di viaggio, il secondo da quando sono partito sei mesi fa, e scrivo “Mi trovo a Malpensa, finalmente sono su suolo italiano!”, già, finalmente, e mentre lo scrivo mi rendo conto di non averlo detto per me ma per gli altri, per tutti quelli che mi chiederanno quali sono stati i pensieri arrivato in Italia – beh – risponderò - quando sono arrivato in Italia ho avuto uno shock: tutta questa ricchezza, i modi di fare delle persone, nessuno che mi guardava in maniera strana – chissà per quanto tempo ripeterò queste parole, e allora mi guarderanno e mi faranno un'altra domanda – sono più civili di noi, vero? – e io non risponderò. Confeziono questi discorsi da fare una volta tornato a casa, quando tirerò fuori foto e ricordi di fronte a parenti, amici, conoscenti di ogni tipo, e poi di fronte a domande risponderò con le solite parole – shock, ricchezza, diversità – in un circolo noioso e logorroico. Dal mio posto vedo la donna col cappotto viola indaffarata: prima parla al cellulare, si sposta fuori per fumare una sigaretta, rientra e si lascia cadere esausta su una poltrona. Tra le mani ho ancora il mio diario di viaggio, ho voglia di aprirlo e leggere tutto ciò che ho scritto durante i sei mesi passati, ho voglia di capire, cercare, sapere, vedere, rivivere. Sfoglio qualche pagina iniziale, leggo la prima frase di ogni giorno, salto qualche passaggio ancora troppo vivo per essere riletto subito, ignoro crisi emozionali, momenti di solitudine, pensieri altalenanti riportati su ogni pagina, scritti a matita oppure a penna – spesso di colori diversi – prima cinque, poi sei pagine alla volta, sfoglio sempre più rapidamente fino ad arrivare a metà e rileggo la frase appena scritta, tiro fuori una penna e copro la parola “finalmente”, poi ci ripenso e la riscrivo sopra lo scarabocchio appena fatto.
Guardo l’ora dal display del cellulare, le 15.30, in questo momento saranno tutti per strada per venire a prendermi direttamente in aeroporto, chissà se qualcuno di loro è cambiato, penso – e mi sembra quasi un pensiero obbligatorio, una domanda da farsi per non considerarsi del tutto un egocentrico – poi la testa continua a vagare da sola. Mando un sms a Mauro con scritto “non sono sicuro di voler tornare”, lui capirà, probabilmente è l’unico che si è reso conto del mio stato d’animo in questo momento (o forse nemmeno lui e a me piace solo pensarlo).
Mi rimetto a sedere tirando indietro le gambe - sono irrequieto –, poi mi alzo e mi avvicino al distributore, mi è sempre piaciuto guardare quello che i distributori hanno da offrire, premere il pulsante per controllare il prezzo dei prodotti, immaginare il percorso che trasforma un seme in un albero da frutta e poi, da questo, quello che fa arrivare la frutta ad essere succo e poi trovarsi lì, in vetrina, in attesa; ma adesso non sto guardando nessun prodotto in particolare, l’obiettivo è quello di pensare ad altro, quello di non sentirsi in un limbo, pensare di dover ricominciare, affrontare sguardi, e l’aeroporto stesso diventa quel limbo di pensieri che si accalcano: la sala d’attesa, la libreria, il viavai dai bagni, le poltrone scomode, i succhi di frutta omologati, il diario che finisce a metà, immagini che si scontrano e si schiacciano, si condensano in un cerchio attorno alla mia testa, probabilmente è solo il sonno accumulato in questi giorni, mi dico, e torno al mio posto dopo aver respirato profondamente l’aria di Malpensa e aver espulso affanno ed euforia. Mi rilasso e chiudo gli occhi, mi allungo nuovamente sulla poltrona e sento vibrare il cellulare dalla tasca dei jeans bucati (è la risposta di Mauro, “coglione”, mi dice) mentre una voce annuncia che hanno appena aperto l’imbarco del mio volo.  
Federico Orlando

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