Svolgimento
Rosalia La Placa detta Lia rimane immobile a fissare l'elegante signorina che le ha aperto la porta. I piedi sono ben fermi sullo zerbino, come se non ce la facesse a muoversi, ma gli occhi roteano in tutte le direzioni e il collo è allungato come quello di una gallina, per sbirciare dentro, senza dare troppo nell'occhio. Lei è una donna del popolo, la sua istruzione si è fermata troppo presto, travolta dalla fretta di crescere e di fare la fuitina con Tanino, quando già il piccolo Kevin era in dirittura di arrivo. Insomma è passato tanto di quel tempo che non ricorda più molto bene come si legge. E infatti la scritta sulla targa luccicante attaccata alla porta se l'è fatta leggere da sua figlia Jessica, o Giassica, come lo dice lei, la ragazzona accanto, giovanissima ma procace quel tanto che basta per sembrare la versione povera e meno furba di certe donnine moderne scappate dai lupanari per occupare persino le aule del potere “Prego signora si accomodi, il notaio la riceverà subito”, le dice la signorina elegante con voce flautata. Lia rimane per un attimo interdetta. La sua espressione tradisce il miscuglio di diffidenza e timore reverenziale che prova, il sentimento tipico delle persone semplici dinanzi ai “signori” che con i soldi sanno di poter comprare tutto. “ Si ma chi ci trasi u' nutaru?” (trad.:“ma che c’entra il notaio?”) chiede sottovoce a Jessica che nel frattempo continua a masticare una gomma con l'indifferenza fessa della mucca che va al macello. “Mamà ma che ne sooo !! Sulla porta c'è scritto Crapanzano e a' mmia mi rissiru (trad:“mi hanno detto”) che questo manager si chiama Crapanzano. Forse è un notaio, che ne sooo...!!” La noia rende la voce di “Giassica” ancora più strascicata di quanto non faccia già il suo marcato accento palermitano. Lia è perplessa. Si guarda attorno con quegli occhi mobili che sembrano lanciare saette in ogni direzione. “Certo che stu' Crapanzano, po' fari u nutaru o il managger (trad.: “può fare il notaio o il manager”), ma pi' essere ricco, è ricco ! Speriamo che ci piace a picciridda (trad.: “bambina”) mia e la piglia.. ” pensa Lia tra sé e sé, posando lo sguardo ora su un tappeto persiano che solo a vederlo pare fatto di soldi, ora su una sontuosa ciotola d'argento “tantu granni ca ti ci po' lavari a' facci” (trad.: “tanto grande che ci si può lavare il viso”), come riflette Lia con la sua impareggiabile saggezza da popolana. La stupisce un po' il fatto che non ci sia nessuna ragazza come la sua Jessica seduta in quella sala d'aspetto che trasuda ricchezza. Se si esclude la elegantissima signorina che le ha aperto la porta, ma che non deve essere certo in attesa di nulla, visto che è andata a sedersi dietro ad una scrivania. Sarà una specie di segretaria, anche se, a maggior ragione, allora, la stupisce pure che non le abbia chiesto niente, manco il nome. Oltretutto Lia nota che la suddetta signorina avrà più o meno l'età della sua bambina, anche se i suoi occhi colmi di amore materno la portano ad interpretare l'insuperabile classe e raffinatezza della ragazza come una copia sbiadita della sua esplosiva figliola. Comunque è arrivato il momento di entrare perché la signorina si sta rivolgendo a loro. Lia entra nella stanza del notaio, con il passo incerto e timido di chi non sa bene cosa stia facendo. Il signore molto distinto, seduto dietro una imponente scrivania di legno scuro, cogliendo forse il suo imbarazzo, la incoraggia “prego signora, entri pure, si accomodi!”.
Il notaio è gentile, un vero signuri (trad: signore), però Lia, con la furbizia istintiva della gente del popolo a cui manca ”la lettera” ma non l'intelligenza, comprende al volo che qualcosa non quadra. Entra nella stanza ma resta impalata e rigida come uno stoccafisso mentre la sua mente si affolla di domande più o meno di questo tenore: “Dov'è la schiera di ragazze scalpitanti come cavallini alla partenza? Dove hanno piazzato le luci potenti dei riflettori? Perché qui c'è solo questo signore dall'aria austera circondato dai libri?” Una sola, la più urgente, riesce ad uscire dalla sua bocca: “mi scusi, ma ...dove la metto la picciridda?”. L'anziano notaio la guarda stranito “scusi signora ma di quale bambina sta parlando?” le chiede, non vedendo davanti a lui altro che una donna un po' smagrita e una procace ragazzotta “Chista, me' figghia, signor notaio! (trad.: “questa qui, mia figlia, signor notaio”). Dove la faccio mettere per farla riprendere meglio ? Dove sono le telecamere?” insiste Lia. Il notaio che a differenza di Lia ha molta, moltissima “lettera”, oltre all'intelligenza, coglie subito l'equivoco e le risponde con il tono pacato di un nonno che parla ai nipotini: “mia cara signora, sono costernato ma deve esserci stato un errore. Questo è uno studio notarile e certamente telecamere qui non ne troverà mai. Io sono il notaio Arturo Crapanzano e forse la persona che cercava era il signor Crapanzano..” Lia non gli da nemmeno il tempo di finire la frase che lo incalza, contenta che si siano capiti: “ eh, eh, eh, si, si, si, Crapanzano, il … l'agente, chi sacciu come si dice (trad.:” che ne so come si dice”), insomma chiddu che faceva i provini alle ragazze!”. Il vecchio notaio non si scompone, e anzi con infinita pazienza le spiega che il sedicente agente dello spettacolo, Alfonso Crapanzano, che aveva installato una presunta agenzia proprio in quello stesso palazzo, è stato arrestato giusto qualche giorno prima con l'accusa di induzione e sfruttamento della prostituzione. La signora Lia ascolta stupefatta. Non è sicura di aver afferrato tutto alla perfezione, sa solo di aver sbagliato clamorosamente persona. Capisce che il provino della sua picciridda è andato in fumo. Ma non comprende, fino in fondo, di aver evitato il diavolo, per un pelo.
Antonella Renda
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