Svolgimento
Sollevi la manica del maglione per controllare l’orologio.“Sbrighiamoci” esclami superando i miei passi “d’inverno la Chiesa della Catena chiude alle quattro” Mi precedi impaziente, bambina. Ti seguo svogliato, distratto dalle nuvole violacee addensate contro al crepuscolo.“Siamo quasi arrivati. Si trova lungo la Riva degli Schiavoni” dici come se io conoscessi la topografia cittadina. Sciogli il nodo al foulard e scopri il collo di una chiarezza avorio su cui tentennano due pendenti orribili. Chissà dove hai scovato quel paio di orecchini così disarmonici sull’ovale quasi perfetto del tuo viso. Arriccio le mani in fondo alle tasche del giubbotto per trattenere quel po’ di calore, ma il tepore evapora e mi sfugge come le tue gambe da cicogna. Tu torni indietro per recuperarmi, ti avviti al mio braccio.“Perché sei così?” chiedi.“Così come?”Non rispondi, ti fermi di colpo, costringi me a bloccarmi, a guardarti. Non decifro lo sguardo oltre gli occhiali. Rimani codice misterioso, lingua straniera. Entriamo dentro la chiesa. C'è penombra. Il pavimento è consumato, l’aria è un abbraccio di cera e incenso. Mi racconti del pittore che ha decorato l’abside, del suo mecenate che sfiorò la follia. Parli sottovoce, malinconica come una musica di Yann Tiersen. “È deformazione professionale. Spiego pure quando non lavoro.”Quando usciamo sul sagrato la pioggia ci sorprende. “Vieni, conosco un posto qua vicino.
E di nuovo mi lascio condurre dal tuo impermeabile crema, dai tuoi tacchi schizzati di fango. L’insegna del locale è una melodia stonata: Caffè Amore. Mi dici che è il cognome del proprietario, Stefano Amore, di origini calabresi. “Ma a Venezia, qualche veneziano è rimasto?” faccio io.Ci sediamo, ordiniamo. Mi racconti i pezzi mancanti: la laurea, i viaggi, gli amori tiepidi, le voglie disfatte. Avevi ventitre anni quando te ne sei andata di gran corsa. Eri sfiduciata, il paese che t’aveva partorito non aveva niente da offrirti, in testa echeggiavano i consigli della tua famiglia: se resti non concluderai niente, questo è un posto a perdere. Non si sceglie il luogo in cui si nasce, sei partita dalla Sicilia per chiedere risarcimento. D’istinto scegliesti Venezia. Doveva essere stata tutta quell’acqua ad attirarti. Della tua terra te ne sei innamorata tardi, da lontano. Guardavi la laguna e ti mancavano le onde, provavi a spiegarlo, ma la gente non capiva. Così hai smesso di spiegarlo. Sei loquace, a tratti tracimante. Hai perso un po’ l’accento, parli con le vocali più chiuse, gesticoli poco. Non te lo faccio notare. Non voglio interromperti. Fingi un’allegria che non hai, sorridi troppo per essere sincera. Non c’è generosità nelle tue parole, non c’è trasporto in quello che racconti. Solo urgenza. Sgrani i tuoi racconti con occhi febbrili, impazienti. “Venezia è decadente” concludi abbassando le ciglia pettinate “è nata col capriccio di dominare la laguna. Si erge fiera e matrona sulla sua conquista. Ma se osservi attentamente, Venezia è in balìa. Le maree stanno rosicchiando lentamente le sue ossa.”La pioggia si fa battente fuori, la porta si apre ed entrano due donne che si dimenano infreddolite. Alla fine scelgono un tavolino non lontano dal nostro.“Ti ricordi che ti chiamavo Mabel?”“Certo che mi ricordo”Mi piacevano i Beatles. Avevo contratto le ultime due parole di Michelle Ma Belle per ribattezzarti. Non avevo altro modo per appropriarmi di te. Tu, sfuggente, socievole con tutti; vitale e agitata come la tempesta. Io goffo, insicuro, taciturno. Non provai mai a dirti che ti amavo. “Se non ti piace qui, perché ci stai?” chiedo io.Alzi le spalle.“Qui, un altro posto. Che cambia?”Non ti riconosco quasi più per niente. Da ragazza avevi occhi cerbiatto.Ti guardo strizzando gli occhi, ma i tuoi contorni non ci sono più.
Monica Gentile