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Tema: Io ci dissi Salvatore (una riscrittura del caso Mattei)

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Tema: Io ci dissi Salvatore (una riscrittura del caso Mattei)Io ci dissi con gli occhi di sedersi che quello era sporco e stanco e insanguinato. Lui accettò volentieri. Era già quasi sera quando vidi quella scia e mi sembrò che qualcosa andasse a fuoco. Lo notai venire giù come uno di quei semi bianchi che se li porta il vento, e attesi. La pianura stava tutta zitta e io sentii il rumore del boato, ci fu un’esplosione piccola e insieme quel seme che scendeva dal cielo. Non mi allarmai e non mi spostai dal mio posto. C’erano delle bestie lì, e non volevo lasciarle incustodite.Lui arrivò dopo mezz’ora circa.
Volete sapere cosa mi disse?
Non disse niente ma sorrise. Si vedeva che era contento di essere vivo e aveva molta voglia di parlare. Io gli feci quel cenno di sedersi che Vi ho già detto, e lui capì.
Un uomo davvero ingegnoso quello. Misurava i miei passi e ogni movimento all’interno della piccola casa di pastore. Misurava e pensava.Poi si prese la testa tra le mani e pianse. Ma durò poco.“Posso parlare?” chiese sospirando come se non lo avesse mai fatto con anima viva prima di quel giorno. Gli feci un cenno e lui capì di sì. Non si spaventò del mio silenzio, forse pensò che non ero abituato alla compagnia degli uomini ma solo delle bestie. E così era per davvero.
Ve lo giuro.
Bevve un sorso d’acqua e si asciugò la fronte insanguinata con una manica sporca e strappata.“Io sono un uomo conosciuto…il mio aereo ha avuto un guasto..quelli che erano con me…morti. Sono morti tutti e due. Mi salvi. La ricompenserò per il suo aiuto.” Parlava con me come se fossi stato uno straniero, lentamente. Intanto non smetteva mai un attimo di guardarmi negli occhi.Devo aver osservato le cinghie che gli penzolavano di lato, perché quello si affrettò a rispondere con delle spiegazioni. Ma io non avevo chiesto niente.
Volete sapere come mi sembrava?
Non lo so, pareva mortificato per il paracadute.“Ce n’era solo uno. Un solo paracadute e il pilota lo aveva messo a me. E’ stato un attimo…Minacce, dicevano che erano minacce e basta … Non così…No, non così”Io allora presi dalla madia un pezzo di pane e una scatoletta di carne. Lui accettò volentieri e tagliò due fette con un coltello che avevo piantato in mezzo al tavolino. E’ bello mangiare se si è sopravvissuti,
Sì, certo. Ora ci torno, ai fatti.
Masticando a quel signore ci passò la voglia di piangere. Deve essersi sentito grato anche per quelli che non c’erano più. E rinfrancato riprese a parlare.
Certo, come volete.Vado avanti e non divago.
“Lei legge i giornali?” mi chiese dando uno sguardo distratto al centro della tavola. Decisi di non dirgli che non sapevo farlo. Anche in Sicilia me li leggevano gli altri, se capitava. Quello osservava il coltello. Feci di no con la testa e gli voltai le spalle per prendere il vino, in modo che capisse che di lui mi fidavo. E che anche lui poteva fidarsi.“No, credo di no…” si rispose da solo scuotendo un po’ la testa. Voleva dirmi chi era, chi era veramente, ne sono sicuro.  Ma invece rimase zitto.Guardai le sue ferite. Aveva le mani bruciate e lunghi graffi vicino agli occhi, forse per le schegge di vetro dell’aereo. Portai sulla tavola una bacinella, uno straccio pulito e un po’ di alcool, quello che mi occorreva a disinfettare le mammelle delle pecore quando sospettavo il mal di pietra che le faceva impazzire dal dolore. Se ne servì senza dire niente, usando per guardarsi il pezzettino di specchio che c’era sul muro vicino al lavandino.Pensai a quanti specchi doveva aver veduto quello lì, con tutti i suoi denari, e quante donne e quante macchine di lusso. Aveva un volto familiare, questo è vero. Non lo nego. Era vestito da ricco. Anche se era strappato e ferito, sempre ricco sembrava. Aveva la faccia di un attore passato di moda, forse. Dovevo averlo visto sul giornale, per questo prima mi aveva chiesto se leggevo. Volevo sapere chi fosse, certo. Ma io non ero abituato a far domande, e restai zitto.
Sì, stia tranquillo. Io tutto mi ricordo.
“E’ vicina la stazione dei Carabinieri?” mi chiese poi cercando di usare un tono indifferente. Ma si vedeva che quella cosa dei Carabinieri gli stava proprio a cuore, che mentre la diceva una vena del collo gli pulsava. Io scossi la testa, perché davvero lì intorno non ne avevo mai visto neanche uno. Sospirò e cambiò discorso.“Lavoro con l’estero” disse distrattamente. Io allora lo rividi nel ricordo in certe immagini che stavano al telegiornale nel televisore della parrocchia. Sì, forse era un attore della pubblicità. Però non sapevo il suo nome. Allora mi venne in faccia un’aria disorientata, come se non sapessi niente di niente del mondo, e quello così cominciò a darmi spiegazioni sull’Italia  e sulla necessità che si facessero certi accordi per certe forniture. Voleva che capissi. Che sapessi qualcosa anche io. Pareva nato in quel momento da com’era felice. Smanettava pure con le mani piagate dalle ustioni. Ma tornò subito triste. Capii che forse non era un attore. Doveva aver fatto uno sgarro a qualcuno, se si trovava in quella situazione. Questo pensai.
Sì, sì. Ora arrivo al punto.
Queste parole, mi disse.“Stavamo per atterrare. La torre di controllo aveva dato l’ordine e noi eravamo pronti. Poi il pilota si è accorto di qualcosa…mentre tirava giù il carrello mi ha gridato di tenere pronto il paracadute e ha azionato la leva di espulsione. La bomba… c’era una bomba da qualche parte. Doveva essere collegata all’altimetro, e lui all’ultimo momento se n’era accorto. Forse lo aveva capito da un rumore, aveva smesso di parlarmi all’improvviso ed era sbiancato, come se qualcuno gli stesse dicendo che stava per morire” Finì questo discorso e mi guardò dritto negli occhi. Si vedeva che era abituato a prendere decisioni. Doveva avermi già pesato da uomo d’onore quale sono. Poi provò ad alzarsi. Cascò però indietro sulla sedia e quasi svenne per il dolore. Forse si era rotto qualcosa, magari una gamba. Mi sembrò scortese stare in piedi davanti a quell’uomo famoso e ferito, perciò mi assettai e mi versai da bere.Lui era pensieroso e restammo così senza parlare, solo a bere, per un po’. “Come farò adesso?” mi chiese all’improvviso. E io capivo quello smarrimento che aveva, perché lo stesso era stato per me, per tanto tempo. Mi rividi un giorno dietro la bara di mio padre, che si era messo contro certe persone e allora lo avevano lasciato solo tutti. E’ terribile, credetemi , non avere una famiglia che ci possa aiutare.Non si sa dove andare. Non si sa dove tornare nelle difficoltà di questa vita.“Masino! Masino!” mi gridava mia madre, come pazza, la sera quando non rientravo.  Ma io preferivo restare per strada che tornare in quella casa senza famiglia. Ora quell’uomo ricco e potente, alto e con la bella faccia fiera, tagliata, secca di sangue e di alcol, quello non sapeva più dove andare. Anche se magari era il padrone del mondo. Non aveva più una famiglia perché non aveva più nessuno di cui fidarsi. Era finito. E qualcuno di sicuro lo aveva venduto.
Come sarebbe a dire “che centra la famiglia?”. C’entra, c’entra…
Forse aveva paura, ma stava zitto e sorrideva. Meschino. Credo prendesse in esame tutte le possibilità che gli restavano. Erano poche. Certo, era stato fortunato, in un certo senso. Che non è mica da tutti i cristiani scampare all’esplosione di un aereo. Si sarà chiesto come era accaduta quella fine di Dio, e poi come era arrivato lì, a quel punto. Cosa non aveva funzionato nella sua vita.
Io glielo avrei potuto dire, credetemi.
C’è sempre qualcuno disposto a fare qualcosa. I motivi possono essere tanti. Sono tutti validi. Si può fare per paura, per divertimento. Per invidia, spesso. Per timore, per voglia di potere. Magari per soldi. Certo, i soldi vengono sempre per primi, poi le femmine.E proprio i potenti sono anche i più deboli riguardo a certi motivi degli altri che gli stanno vicini. Che invidiano. Che invidiando aspettano. E temono. E se la fanno sotto dalla paura e intanto odiano e si preparano, che magari viene anche per loro il momento buono. Questo, avrebbe dovuto sapere, quell’uomo potente. Che poi fu la prima cosa che imparai dalla famiglia, il terzo giorno che ero a servizio da Don Vincenzo, e quello morì accorato come un maiale. Sono intoccabile, lui diceva. E ora era morto. E io subito dopo passai a servizio di Don Vito, il figlio. Fu lui a spiegarmelo, davanti al cadavere del padre, che non esistono uomini intoccabili. Ci sono i furbi e i minchioni. E i furbi campano un po’ di più. Uomo grande, l’avvocato, sempre più grande, familiare e amico  di tutti i politici d’Italia.
Fatti vecchi, voi dite?
Vecchissimi, infatti. E senza valore. Io vedevo ministri e segretari, e tutti venivano a mani vuote e tornavano a Roma con qualche cassa di limoni che parevano d’oro per come brillavano. Oro vero. Ma non portavano mai niente, quelli. Non c’era riconoscenza, davvero brutta cosa. Non ci si può aspettare di più dagli estranei. Invece dalla famiglia sì. E questo io gli dicevo a Don Vito mio benedetto, che mi aveva tolto dalla strada e aveva pure pagato il funerale per mia madre e tre giorni di pianti delle donne e la messa in suffragio. Gli dicevo che per la famiglia avrei fatto qualsiasi cosa. Qualsiasi, sempre. Poi decisi di partire per il Nord, e loro mi aiutarono.Per questo provavo pena per quell’uomo, ricco e solo al mondo. C’è sempre qualcuno disposto a fare tradimenti. C’è sempre un buon motivo per farli.“Lo sa lei perché vogliono uccidermi?” mi chiese lui all’improvviso. Io alzai le spalle come se non importasse, anche se un po’ mi interessava. Lui neanche mi guardò e continuò con gli occhi aperti sul muro bianco dietro di me. “Io credo che l’Italia sia molto più grande di come gli altri se la immaginano. Credo che possa essere una nazione in grado di guidare le altre, che possa portare gli altri paesi  a fare del loro meglio … e questo ad alcuni non piace. Ecco perché mi vogliono morto.”Io pensai che era matto. Un vecchio attore matto. In Italia si stava male da schifo, altro che. Avevo parenti lontani sparsi ovunque, e quello più lontano che stava in Australia mi scriveva ogni due anni per dirmi che lui non era morto, che io vivevo in una chiavica di paese, e che pertanto in Italia non ci sarebbe tornato neanche in una cassa di zinco.“Vogliono uccidermi perché credo che l’uomo abbia un certo valore, e che debba bruciare almeno un po’ prima di sparire..” qui si fermò a sorridere “…diciamo come il gas”Questo gli fece tornare in mente una storia di qualche anno prima. Cominciò a dirmela senza neanche chiedermi se la volevo sentire.
Volete che ve la racconti?
Mi narrò che aveva dato ordine a trecento operai di scavare di notte il centro storico di Cremona per passare con i tubi del gas. Mi disse anche che non aveva nessun permesso. Aveva finto di essersi sbagliato e il sindaco purchè richiudesse quelle trincee gli aveva fatto mettere tutti i tubi che voleva..Allora non era un attore. Magari un ingegnere del gas.Era stato prepotente e scorretto ma aveva agito anche lui come un buon capofamiglia, che quello che può se lo prende, e questo lo fa per il bene di tutti, perciò restai zitto.
Volete sapere cosa pensai?
Non era molto diverso da Don Vito. Questo, pensai. Aveva la stessa calma gentile che non chiedeva, e però dava sempre la risposta giusta. E perciò nessuno aveva il coraggio di disobbedire a quella calma. Loro due si sarebbero piaciuti. E magari si conoscevano, pure.Ecco tutto.
Cosa intendete esattamente con “collaborazione”? E perché dovrei collaborare con Vossia?
Io mai mi sono lamentato di come sto. Non voglio di più. Qui l’isola è piccola ma non manca niente. La prigione è pulita. Televisione, giornali, sigarette. In estate posso fare il bagno e pescare i ricci, che li mangio come piacevano a mia madre, buonanima, con il limone e una fetta di pane. Non ho parenti, no. Però ho la famiglia. E la famiglia pure qui sta. Sta dappertutto. Al Nord, al Sud. Perfino in mezzo al mare. E non ho niente di cui pentirmi. Niente da dire.Ho avuto una buona vita. Adesso aspetto una buona morte.No, non hanno mai voluto molto da me. Giusto due o tre cose.
Non sono stanco. Chiedete pure.
Mafia. Mafia. Si fa presto a parlare. Che io neanche capisco bene cosa vuol dire. Voi la chiamate così. Voi e i giornali, perché avete bisogno di nomi per le cose. Ma le cose sono cose. Cose e basta. E i nomi solo sono nomi che non vogliono significare niente. E’ tutto un fatto di riconoscenza e di famiglia. La famiglia mi ha accolto e tolto da mezzo alla strada. Mi ha fatto lavorare con la terra e le bestie. E io sento riconoscenza. Io non domando mai se è giusto quello che faccio. Due o tre cose in tutto, mi hanno chiesto. Sì, ho guidato un’auto. E qualche altro lavoro simile.
Che c’è, non si può fare il contadino e pure l’autista?
Quella volta lì la faccenda poteva andare bene oppure male, poteva risolversi subito oppure no. Ma io niente sapevo. Credevo che prima o poi poteva capitare di farci un piacere, di nascondere qualcuno, magari un rapito, e intanto come niente fosse di continuare a travagliare e guardare le bestie, che questo avevo fatto quasi tutta la vita. Porcaio e pecoraio. Usavo bene il coltello, questo sì. Scannare è la mia specialità. Prendo alla gola. Un taglio netto. Non c’è dolore. Non c’è crudeltà. La vita esce in uno schizzo ed è tutto fatto. Ma io dovevo stare lì e aspettare senza fare niente, guardando le bestie e passando la vita. Così mi aveva chiesto la famiglia.Poi mentre tagliavo il pane arrivò il cugino di Don Vito. Quell’altro non lo scorse, che era girato di spalle. Io Peppe non lo incontravo da tre anni, ma subito lo riconobbi. Capii che era fatto importante. Lo vidi in penombra all’entrata davanti a me. e lui fece un segno. Quale non ricordo.Una cosa nostra.
No. Non “cosa nostra” : una cosa nostra. Di noi. Della famiglia.
Era il segno che a quello lì, seduto davanti a me, io lo dovevo eliminare. Ammazzare. Come una delle mie bestie. Ecco cosa ci stava a significare, quella sera, il segnale di Peppe Calabrò.E io senza dire niente ci feci di sì verso la porta aperta, e quello neanche entrò. Si toccò un poco il cappello per saluto, poi ripartì.
Come volete, vado avanti.
Sono passati tanti anni. Io quell’uomo non l’ ho scordato perché era un capo, per questo vi dissi che somigliava a Don Vito. E infatti non era minchione. Solo sfortunato. E siccome era uomo d’ingegno, lo capì all’improvviso da sé, il perché non avevo ancora parlato. MI chiese da dove venivo. Era certo che ero venuto dalla Sicilia al continente, fino ad arrivare lì in mezzo alla nebbia di Parma, a fare il contadino per conto di altri. Per la famiglia.Questo mi disse.Poi abbassò la testa e chiuse gli occhi.“ditemi almeno il vostro nome” mi chiese, intanto che aspettava.Io ci dissi Salvatore. E lui fece una smorfia con mezza bocca, che magari pareva volesse sorridere.Poi gli tagliai la gola.
Come Dite?… Enrico Mattei?No, signor giudice.Non so chi sia.
R.L. 

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