Tema: Notturno

Da Svolgimento @svolgimento
Sez. Mi sono innamorato di te perchéSvolgimento


“ Ciò che mi consolava era sapere che avrei rivolto un ultimo pensiero a te, quando fosse giunta la mia ora: se fossi stato ancora vivo ti avrei augurato la felicità, in caso contrario avrei sperato di rivederti da qualche parte, in un’altra vita. Ero sicura che anche tu avresti rivolto un fugace pensiero a me poco prima della fine: ti saresti chiesto se sentivo che te ne stavi andando o se stavo morendo con te.”Da una lettera di S. Spielrein a C.G. JungLa prima cosa che ricordo di te sono le tue gambe sottili che pendevano dallo sgabello del pianoforte, quello con il cuoio di pelle rossa tutto raggrinzito, pieno di pieghe come i tuoi occhi, raggrinzito come quei seggiolini del luna park che giravano in tondo senza fermarsi mai mentre la mia gonna dall’aria smorfiosa si alzava con il tuo sguardo rimasto a terra. Dondolavi con Chopin, dondolavano le vene nei tuoi polsi come rami secchi d’albero marchiati a fuoco in un cielo bianco, dondolavano i miei capelli accanto al tuo viso intrisi di sale fino ad insinuarsi nella tua bocca quasi chiusa o quasi aperta, sembrava soltanto una crepa, una spaccatura nel volto da cui si srotolavano pensieri così ruvidi e spessi da essere funi che io rubavo senza esitazione o che tu lanciavi come ami. Ecco allora che con forza li afferravo, li tiravo a me per metri e metri. Non volevo staccarmene: me li avvolgevo intorno alle braccia, tra la linea delle cosce e poi su fino alla schiena, alla spalla, un doppio nodo intorno al mio collo. Sentivo il cuore penzolare sopra lo stomaco: un impiccato. Sarei potuta morire così, appesa al tuo corpo, legata alla tua bocca con un cappio di parole in quella stanza con specchi dagli occhi chiusi. Eppure c’era soltanto questa voglia di scoprirti a poco a poco come si sbuccia un’arancia dalla scorza dura, lasciando che la polpa fuoriesca pian piano, spandendosi tra le mani ed impastando le dita. Suonavi, suonavi e sapevi che su un tasto c’era la mia pelle, su un altro la mia mente e su un altro ancora tutto ciò che restava… i miei ricordi sembravano piccole matasse di lana calda; si spandevano su tovaglie di lino candide. Potevo sentire la voce di mia madre che aveva il mio stesso nome e chiamava: “Isabella, Isabella“, non cercava mai me, ma se stessa o quel che rimaneva del suo mistero in ogni stanza.Di quel mistero di cui nonna raccontava tutte le notti in cui i suoi occhi riflettevano il blu del cielo notturno costellato da piccoli punti luminosi, da piccole stelle che si accendevano allo scorrere del suo sangue quando tornava a battere scalpitante il tempo della gioventù. Il tempo della guerra, delle partenze, delle lenzuola fredde nella parte destra del letto, dell’attesa ma anche della vita, di una piccola vita che trovò abbandonata e abbracciata alle spesse radici del bianco ciliegio, sporca di fango e vento, quasi fosse stata partorita dalla terra stessa. Nessuno ha mai saputo da dove venisse. Eccola lì, mia madre. La spiavo parlare con persone che non avevo mai visto forse perché non esistevano. La vedevo con un vestito color crema sorridere malinconica ad un libro pieno di fiori secchi tra le pagine, la vedevo distesa al centro del tappetto dai colori timidi che batteva i piedi alzando la polvere quasi volesse farne una magia, la vedevo piangere lacrime grandi quanto i suoi occhi sul prato bagnato canticchiando una melodia in una lingua sconosciuta, la vedevo tagliarsi i capelli con delle forbici sopra una bacinella, corti finché il collo non avesse tremato per il freddo, la vedevo rimanere in piedi sopra il ponte vicino la nostra casa e il vento era così forte che temevo la volesse rubare a noi. Ma in realtà noi per primi l’avevamo rubata. Non è mai appartenuta a questo mondo, abbiamo preso qualcosa che non era nostro, l’abbiamo trattenuto fino a farlo ripiegare in se stesso per poi lasciarlo scolorire. Un giorno non è più tornata indietro da quel ponte. Né i suoi tristi occhi grigi. Né le sue scarpe allacciate a doppio nodo. Finalmente si era decisa a partire. Non c’è una tomba al cimitero dell’isola, non c’è perché mia madre non è mai morta. E non è mai nata. È soltanto apparsa. Ma tu lo sapevi. Di questo raccontava la tua musica. Condividevamo questo segreto. Sempre vicini l’uno all’altra per non disperderlo. Lo sentivi, vero?, aveva perfino un sapore. Te lo passavo con la bocca, piano, per non farlo cadere. Lo accarezzavamo con la lingua per scaldarlo, lo tenevamo al caldo per addormentarlo. Il mio sguardo si apriva con le mie labbra e diventava così ampio, così ripido che avvertivo la vertigine che t’imbrigliava i nervi della schiena, sbattevi senza equilibrio tra le pareti dei miei occhi e allora ti sei aggrappato a me, alle mie spalle, ai miei capelli, alle mie gambe. Mi hai scavato dentro con le dita, rovistavi per cercare quel pezzo di te che fin dalla nascita mi appartiene, che custodisco gelosamente e che non ti permette di essere un uomo a se stante, ti sentivo seguire le strisce di quella infinita spirale che si abbarbica intorno al mio utero e lo stringe come amore senza ragione, come amore violento, come amore traboccante e incompreso che si vendica, che non perdona, che tace con il tuo dito davanti alla bocca mentre cerca di ammansirlo e assume la forma di una culla, quella culla in cui abbiamo perso la verginità dell’essere individui. Hai lasciato che il mio sangue ritornasse al tuo e ti facesse scivolare verso la verità..Un colpo di reni.Musica finita.Le tende spesse, color rosso e arancio, pian piano hanno cessato di oscillare come gonne in un valzer suonato a metà, il vecchio tavolo di legno d’acero ha rotto il silenzio con la sua tosse e il pavimento scricchiolava le ossa indolenzito. Eccoci, di nuovo esiliati e spaccati in due. Terre emerse in questo oceano dimenticato da Dio. Nascere uniti è un destino, questa era la nostra natura, una natura tagliata e poi ricucita da bisturi sterili che nulla sanno dell’anima.Mia madre ha partorito la mia morte. Mia madre ha partorito te, come fratello.Cucito al mio fianco come si cuce il destino su una vita appena affacciata al mondo.Nessuna lettera, soltanto il silenzio. La suorina muta entra nella stanza e straccia in piccoli pezzi i miei pensieri. Oltre che muta sembra essere anche cieca, non fa che rivolgersi al muro bianco come fosse la mia faccia ma forse è soltanto strabica. La solita iniezione, il solito salasso: ormai non c’è più nulla da portare via, ho dato tutto. Questa sangue è soltanto acqua sporca; è soltanto una bugia. Io sono ieri. Non posso più portarmi la mano al viso senza chiedermi di chi sia questo arto sconosciuto. Tutto mi è estraneo. Odoro già di passato, di imperfetto. Mi mette delle ciabatte a fianco del letto, so che cosa significa: la cagna va portata a spasso. Forse dovrei mordere a sangue anche lei per farmi definitivamente rinchiudere in quella bella stanza senza finestre. Non ho bisogno di uscire, né di aria, né di dottori. Qui la mente scappa per non farsi trovare, dovrei metterle un guinzaglio e chiamarla schioccando la lingua in quel modo così dolce, come fosse un gattino bianco e rosso, di quelli bastardi che lo si capisce subito dall’aria sempre affamata sempre selvaggia. Guardo fuori dalla finestra e mi vedo correre fino allo stremo con la pioggia che batte incessante e fa risuonare la mia pelle come un tamburo. I piedi non sentono più la terra sotto di loro, sono già scomparsi, le braccia si aggrovigliano nell’aria, il petto si gonfia come una grande vela, i capelli fluttuano senza gravità, le palpebre sono portali che rovesciano gli occhi in un mondo inconscio e la bocca molle cade e si dilata deformandosi in un urlo, teso, tirato dalle corde vocali come un lungo filo di marionetta. Aspetto che si spezzi, aspetto che qualcosa dentro me si rompa e che quel suono strisciato arrivi fino a te. Fino a te che mi hai dimenticata e che ti sei dimenticato. Fino a te che ti sei negato e che mi hai negata. Fino a te che hai scelto di mentire, sempre, quando cammini, quando porti il cucchiaio alla bocca, quando leggi, quando accendi la sigaretta, quando ti lavi i denti, quando ti specchi pensando di non essere guardato e fingi. Io ti vedo fingere. Tu sai che io so. Dopo me non ci saranno testimoni e tu smetterai di esistere per ciò che eri e per ciò che non accettavi di essere.Ritornerai come nuovo.Avrai finalmente la tua normalità. Un lavoro. Una moglie. Una torta fatta in casa per il tuo compleanno. Il vuoto che ricaccerai giù come un rigurgito ma che tornerà più forte esplodendo in faccia a quella persona che sa soltanto chi crede che tu sia. Un vestito nuovo. Un giardino con un cane. Amici a cui raccontare quel che basta. E forse, forse una bambina con i miei occhi. Perché tutto torna. In forme diverse, in punta di piedi per non farsene accorgere. Attaccherà alle spalle con sorrisi che mostrano bene i denti. Tu sarai fiducioso. Impreparato. Tutto torna.Alice Pagotto