Io non so nulla di ciò di cui mi parli se non qualche brandello di verità percepita oltre fiumi d’ansia e retorica che ogni giorno i nostri telegiornali ci vomitano addosso.Ma ora basta, è venuto il momento di iniziare. Leggo sul monitor un incipit bellissimo e ti penso. Anzi ti vedo:Sei tu? Non lo so. Forse sono io stessa, quando bambina leggevo storie di guerra e sognavo di diventare Oriana Fallaci. Sorrido. Siamo due scritture e due vite che si intrecciano in una trama nuova, tutta da ri-scrivere:Milano. Fine gennaio 2011. Sto camminando nella nebbia. Il rumore dei miei passi si confonde al tramestio anonimo dei passanti. Oltre il cristallo, osservo manichini smembrati e lattescenti. Tossisco. Quasi impercettibile, una raucedine sottile di polvere e catrame mi avvolge. Mi fermo sotto casa tua e alzo lo sguardo. Dai soffitti opachi filtrano lampi irregolari di luce mentre una palinodia di ombre e intermittenze tambureggia alla radio. Salgo le scale e busso alla tua porta. Trovo l’uscio scostato. Entro senza far rumore e appoggio la giacca su una bella cassapanca egiziana.‒ Ciao, ti ho portato due pasticcini. Ci sono novità?Dopo un primo scambio di battute, Il ricordo della mia routine è già una terra sconosciuta. Parliamo concitatamente mentre tu continui a controllare il sito dell’Ansa.Sull’altra sponda del Mediterraneo, qualche bagliore supera le censure. Headlines. Cortine di fumo e abusi di potere. Di colpo, mi sento trasportata in un luogo buio di frontiera: nero e profondo, il mare ingoia l’ultima sincope di luce.‒ Ma la dignità non può essere abusiva, protesto.Ti osservo da ore davanti al portatile, una tazza di tè allo zenzero tra le mani, non riesci a darti pace. Trattengo il fiato. Il monitor sgranato oppone un diaframma di silenzio. Poi all’improvviso sui riflessi immobili dei nostri volti corrono dei caratteri che non so decifrare. Pulsano dentro i miei occhi. Tu li leggi sollevata e rispondi in inglese.‘Please, keep in touch, my dear friend’. Click. Invio. Dopo pochi secondi, lo schermo si incendia in una Deflagrazione d’insonnia. E’ Karama ("Dignità, in Arabo). Emerge dalla rete come un avatar senza volto. Sulla superficie del tuo tè ondeggia una patina bianca e opalescente. Ti guardo negli occhi e capisco. Hai deciso. Mentre frughi tra le tue scarpe da viaggio, percepisco un fruscio di terra sventrata.Sono in attesa delle tue prossime e-mail. Di solito mi scrivi la mattina presto. Sbircio un tuo vecchio taccuino di viaggio. 25 gennaio 2011. Un magma di colori e forme esplode sul web. Vertigini. Mubarak dégage. Blackout. Tam tam. Like. Unlike. Click. Ti vedo stringere un velo di lacrime. ‒ Come si scrive tutto questo ? Mentre leggo la tua ultima e-mail, mi si gela il sangue. E’ già qualcosa per una che vive in un decubito di democrazia. 28 gennaio 2011. Blackout. Sul selciato di Piazza Tahrir, grovigli di corpi schiacciati dalla polizia a cammello. Un massacro. Hanno potuto opporre solo una debole intifada. Vedo centinaia di niqāb colorati e una folla inarrestabile. Scaglia immagini e parole sulla città. Murales, stencil, trompe l’oeil acrilici. Opere per loro natura destinate a scomparire. Opere per loro natura destinate a scomparire. Crittografie di una lunga preistoria. Forse il mistero si cela nell’evidenza. Novembre 2011. Nove mesi di ribellione e resistenza. Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a ballare. Writers incappucciati e armati di stencil incrociano soldati in tuta mimetica e nei caffè si discute animatamente delle prossime elezioni. Aria di libertà. Ma niente è per sempre . . . Giugno 2012. Il Cairo brilla acrilico di sole. All’imbrunire, graffiti, bombolette e stencil sfidano l’occhio di Horus. Onniveggente e ‘normografo’ più che mai. Contro-rivoluzione. Il neo-eletto presidente Morsi digrigna i denti. E bave di graffiti colano lente dai muri. La calce incandescente è una furia iconoclasta. Ancora una volta. Ma come sempre, non appena cala il sipario, esce un foole irridente annuncia: “Se non ci lasciano sognare, non li faremo dormire” (Keizer.)Mi risveglio di soprassalto. Riavvio il computer e prego di vederti dall’altra parte del monitor. You are connected. Tiro insieme a te un sospiro di sollievo. Quei graffiti e quegli slogan non potranno più essere cancellati. Ora rimbalzano come schegge su Twitter, Facebook, Skype e dentro le nostre coscienze “ Yes, we all need more Karama”. Assistiamo insieme a una trasformazione alchemica: il “lungo sonno dell’indignazione”, costato la vita a migliaia di egiziani, germoglia inarrestabile dai muri dimenticati della storia.Sì, hai ragione. Ogni ribellione continua perché ci sarà sempre qualcuno armato di cuore e dignità. Finalmente possiamo berci un altro tè. Ti ascolto. Mi ascolti. Ci rispecchiamo nelle nostre parole. Ora tocca a noi raccontare anche la nostra storia, possibilmente senza mentirci troppo.
Io non so nulla di ciò di cui mi parli se non qualche brandello di verità percepita oltre fiumi d’ansia e retorica che ogni giorno i nostri telegiornali ci vomitano addosso.Ma ora basta, è venuto il momento di iniziare. Leggo sul monitor un incipit bellissimo e ti penso. Anzi ti vedo:Sei tu? Non lo so. Forse sono io stessa, quando bambina leggevo storie di guerra e sognavo di diventare Oriana Fallaci. Sorrido. Siamo due scritture e due vite che si intrecciano in una trama nuova, tutta da ri-scrivere:Milano. Fine gennaio 2011. Sto camminando nella nebbia. Il rumore dei miei passi si confonde al tramestio anonimo dei passanti. Oltre il cristallo, osservo manichini smembrati e lattescenti. Tossisco. Quasi impercettibile, una raucedine sottile di polvere e catrame mi avvolge. Mi fermo sotto casa tua e alzo lo sguardo. Dai soffitti opachi filtrano lampi irregolari di luce mentre una palinodia di ombre e intermittenze tambureggia alla radio. Salgo le scale e busso alla tua porta. Trovo l’uscio scostato. Entro senza far rumore e appoggio la giacca su una bella cassapanca egiziana.‒ Ciao, ti ho portato due pasticcini. Ci sono novità?Dopo un primo scambio di battute, Il ricordo della mia routine è già una terra sconosciuta. Parliamo concitatamente mentre tu continui a controllare il sito dell’Ansa.Sull’altra sponda del Mediterraneo, qualche bagliore supera le censure. Headlines. Cortine di fumo e abusi di potere. Di colpo, mi sento trasportata in un luogo buio di frontiera: nero e profondo, il mare ingoia l’ultima sincope di luce.‒ Ma la dignità non può essere abusiva, protesto.Ti osservo da ore davanti al portatile, una tazza di tè allo zenzero tra le mani, non riesci a darti pace. Trattengo il fiato. Il monitor sgranato oppone un diaframma di silenzio. Poi all’improvviso sui riflessi immobili dei nostri volti corrono dei caratteri che non so decifrare. Pulsano dentro i miei occhi. Tu li leggi sollevata e rispondi in inglese.‘Please, keep in touch, my dear friend’. Click. Invio. Dopo pochi secondi, lo schermo si incendia in una Deflagrazione d’insonnia. E’ Karama ("Dignità, in Arabo). Emerge dalla rete come un avatar senza volto. Sulla superficie del tuo tè ondeggia una patina bianca e opalescente. Ti guardo negli occhi e capisco. Hai deciso. Mentre frughi tra le tue scarpe da viaggio, percepisco un fruscio di terra sventrata.Sono in attesa delle tue prossime e-mail. Di solito mi scrivi la mattina presto. Sbircio un tuo vecchio taccuino di viaggio. 25 gennaio 2011. Un magma di colori e forme esplode sul web. Vertigini. Mubarak dégage. Blackout. Tam tam. Like. Unlike. Click. Ti vedo stringere un velo di lacrime. ‒ Come si scrive tutto questo ? Mentre leggo la tua ultima e-mail, mi si gela il sangue. E’ già qualcosa per una che vive in un decubito di democrazia. 28 gennaio 2011. Blackout. Sul selciato di Piazza Tahrir, grovigli di corpi schiacciati dalla polizia a cammello. Un massacro. Hanno potuto opporre solo una debole intifada. Vedo centinaia di niqāb colorati e una folla inarrestabile. Scaglia immagini e parole sulla città. Murales, stencil, trompe l’oeil acrilici. Opere per loro natura destinate a scomparire. Opere per loro natura destinate a scomparire. Crittografie di una lunga preistoria. Forse il mistero si cela nell’evidenza. Novembre 2011. Nove mesi di ribellione e resistenza. Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a ballare. Writers incappucciati e armati di stencil incrociano soldati in tuta mimetica e nei caffè si discute animatamente delle prossime elezioni. Aria di libertà. Ma niente è per sempre . . . Giugno 2012. Il Cairo brilla acrilico di sole. All’imbrunire, graffiti, bombolette e stencil sfidano l’occhio di Horus. Onniveggente e ‘normografo’ più che mai. Contro-rivoluzione. Il neo-eletto presidente Morsi digrigna i denti. E bave di graffiti colano lente dai muri. La calce incandescente è una furia iconoclasta. Ancora una volta. Ma come sempre, non appena cala il sipario, esce un foole irridente annuncia: “Se non ci lasciano sognare, non li faremo dormire” (Keizer.)Mi risveglio di soprassalto. Riavvio il computer e prego di vederti dall’altra parte del monitor. You are connected. Tiro insieme a te un sospiro di sollievo. Quei graffiti e quegli slogan non potranno più essere cancellati. Ora rimbalzano come schegge su Twitter, Facebook, Skype e dentro le nostre coscienze “ Yes, we all need more Karama”. Assistiamo insieme a una trasformazione alchemica: il “lungo sonno dell’indignazione”, costato la vita a migliaia di egiziani, germoglia inarrestabile dai muri dimenticati della storia.Sì, hai ragione. Ogni ribellione continua perché ci sarà sempre qualcuno armato di cuore e dignità. Finalmente possiamo berci un altro tè. Ti ascolto. Mi ascolti. Ci rispecchiamo nelle nostre parole. Ora tocca a noi raccontare anche la nostra storia, possibilmente senza mentirci troppo.
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