Il suo interlocutore era arrossito violentemente. Sembrava ancora più sfatto, svuotato, straziato dai suoi trent’anni, dalla sua disoccupazione e da chissàchealtro. Sembrava ancora di più Invecchiato Anzitempo. In lui la maturità, l’uscita dall’adolescenza, aveva assunto le forme di una rigidezza inquietante, un cadaverico rigor mortis, quasi che – irrimediabilmente non più teen-agers – avesse smesso inesorabilmente di vivere e palpitare. Trent’anni, e pareva una statua di cera, una mummia. Adesso, passato il rossore, sembrava mummia, statua di cera, perfino nel colorito.
“Tu perché sei venuto? – continuò allora Marco – Solo per mangiare?”. Il duello non era ad armi pari. Marco lo sapeva, godendo della propria superiorità. “No…io..io” balbettò il poveretto, che adesso, come preso da un lampo di lucidità, o da una tenebra di offuscamento, non voleva ammettere con se stesso quanto si vergognasse a dire le cose come stavano. Non voleva ammettere con se stesso quanto si vergognasse, quanto gli riuscisse difficile raccontare che, cazzo, ormai erano mesi e mesi e mesi che ci lavorava alacremente, che si stempiava mattino e sera, che consumava suole di scarpe, batterie del cellulare, un sacco di tempo perso, un sacco di energie buttate a cercarsi quella cazzo di raccomandazione. Che bussare alle porte era ormai diventato il suo mantra quotidiano, che ormai era un esperto nell’assumere il tono giusto, la giusta servilità, la giusta affettazione di inferiorità umana, morale e sociale, che bisognano per ingraziarsi i politicanti e, tessendo tessendo centinaia di tele, cercare in qualche modo di far qualcosa, qualsiasi cosa per farsi iniziare alla strada del Sacro Posto Fisso che lui sapeva non esisteva più, che era un mito ormai passato, che sono speranze vane, ali spezzati ancor prima di volare, ma diamine, non ci poteva fare niente, passava le giornate a intrecciare contatti frustranti, a fare anticamere trasudanti bile verde, ad appuntarsi numeri di telefono, a chiedere chiedere chiedere, a ringraziare a ringraziare ringraziare, senza che nemmeno gli venisse più il voltastomaco.
Gli riusciva difficilissimo, adesso, impossibile da digerire, riuscire ad ammettere con se stesso quanto si vergognasse a dire, a dire a quel testa di cazzo supponente di Marco Fantesca, che tutto quello, tutto quell’ambaradan in cui impiegava tutte le sue energie da mesi e mesi e mesi, che tutto quello era ormai l’unico modo che riusciva ad immaginare per riuscire a continuare a guardare in qualche modo in faccia sua madre.
Intanto Marco lo fissava imperturbabile, mentre quello taceva, intimamente curioso di capire come mai quel trentenne lì, che una volta faceva sì tanti discorsi idealistici, ma che comunque era anche lui ormai ben cresciuto e smaliziato, potesse avvampare di imbarazzo per una cosa così stupida. “Senti – sbottò infine – io mi sono laureato e poi ho provato nonsoquanti concorsi, sostenuto nonsoquanti colloqui, e niente. Ho fatto sempre lavori del cazzo, sono sempre stato pagato un cazzo. Sono affogato nel puzzo di una friggitoria, ho pulito lo schifo che la gente lascia negli alberghi, ho proposto mille minchiate inutili a gente che mi mandava regolarmente a fanculo. Ora guarda qui, sono tutto stempiato, presto sarò completamente calvo, e ancora tutti mi trattano come un ragazzino che deve far gavetta. Io non ce la faccio più”. Marco lo guardò, senza espressione. Controllò il cellulare, nessun nuovo messaggio. “Però – continuò – questa è la prima volta che lo faccio, perché ormai mi sento quasi come un disperato. Io mi sento una merda, Marco, ma non so cos’altro fare. Pensala come vuoi, pensa che sono un ingenuo, un bambino, uno sciocco sognatore, ma a me sta cosa del chiedere favori a quei cosiddetti pezzi grossi che non valgono niente, insomma, questo dover leccare il culo a questa gentaglia che ha rovinato un paese e continua imperterrita a comandare, a me sta cosa fa schifo”. Marco decise di affilare i coltelli di quel gioco crudele. Silenzio. “E quindi ora si – concluse dunque il tizio, ormai senza più difese – Ora si, mi cerco la raccomandazione. E fanculo a tutti i bei discorsi e gli ideali e le belle speranze. E non mi guardare così”.
Marco sbuffò, gli mise una mano sulla spalla, fece la parte dell’annoiato. “Senti – disse – a me non me ne frega niente. Perché ti stai giustificando con me? Ma fai quello che vuoi! Io me ne stavo giusto andando”. Il tizio sembrò vacillare. Marco gli fece ciaociao con la mano, inoltrandosi verso l’uscita del locale. Controllò il cellulare. Lesse il nuovo messaggio. Sorrise. Se ne andò. Non aveva neanche salutato l’Onorevole mezzo cugino suo. Nessuno quella sera gli avrebbe fatto un discorsetto di quelli giusti.
NF