Tema: Peccato non vestirmi da scarpa

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Ultimo di Carnevale
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Avevano beccato proprio il giorno giusto, i miei amici. Avevo cominciato a bere dalle dieci di quella mattina e quando mi trovarono mi ero già lavorato una mezza dozzine di bottiglie. Dissi più volte che non li volevo accompagnare, che stavo bene dove stato e che ci saremmo potuti anche vedere quando sarebbero tornati, ma no, niente, dovevo andare con loro. Pagarono il mio conto, neanche troppo grosso, mi caricarono in macchina e mi portarono con loro in un negozio specializzato in maschere. Maschere per il carnevale, per il teatro e per qualsiasi altra buffonata per la quale servisse cambiarsi la faccia.
Mi misero nel sedile posteriore, non mi lasciarono guidare, in fondo perché mai avrebbero dovuto rendere la cosa divertente. E così facemmo un viaggio noioso in macchina.
 Entrammo in questo grandissimo negozio e tutti ci disperdemmo tra gli scaffali, ognuno con la propria idea di divertimento, tranne il sottoscritto, che lì non ci volevo nemmeno andare. Mi misi lo stesso a guardare ciascuna di quelle maschere, non avevo niente di meglio da fare. Presi in mano quella di “V”, con le sembianze di quel vecchio dinamitardo di Guy Fawkes. Gli Anonymous l’avevano presa come loro simbolo. Era una maschera troppo anarchica e, come tutte le icone anarchiche, era finita per diventare troppo comune.

La riposai giù in mezzo alle altre. Presi in mano la maschera di ferro, quella del fratello del re Luigi XV di Francia, fedele riproduzione di quella usata nel film. Mi ricordai che il vestito da moschettiere era molto più figo di quello del fratello gemello del re e rimisi giù anche quella seconda maschera che non mi diceva niente se non che Leonardo di Caprio aveva cominciato a fare film decenti.

Presi in mano la maschera da hockey sporca di sangue, quella di Jason, per intenderci. Uno dei film horror più belli della storia. E rovinato come tutti i bei film dai numerosi seguiti, uno più pacchiano dell’altro. Hollywood era come un vecchio allevatore che quando vedeva una mucca che produceva latte al cioccolato, la mungeva fino a ridurla come una delle vacche magre sognate dal faraone. La misi giù prima che Hollywood mettesse il suo occhio su di me e mi mungesse per avere i miei racconti e farci dei blockbuster per il sabato sera in famiglia.
Poi fu il momento della maschera di Arlecchino, buttata lì insieme alle altre. Guardai in quelle orbite vuote e sghignazzai pensando che in realtà il buon Arlecchino non era quel povero bambino che non aveva soldi per farsi un vestito di carnevale. Arlecchino era un demone, nella vecchia Francia Arlecchino era uno dei demoni che cavalcava col diavolo, perfino Dante l’aveva messo all’inferno con gli altri suoi amichetti. Nel duemila, sua maestà infernale Arlecchino era un poveraccio che parlava in veneziano, preso in giro da tutti. Non male.
C’erano maschere ovunque e a me andava ancora bene la mia brutta faccia. Raggiunsi uno dei miei compari, mi disse che voleva vestirsi da vampiro perché andavano di moda e attiravano un sacco di ragazze. Io lo guardai fisso e gli dissi che aveva sbagliato alla grande. Di un vampiro non gliene frega niente a nessuna, se veramente voleva essere una calamita per le ragazze, doveva vestirsi da scarpa, un modello particolarmente costoso, oppure vestirsi da un pezzo di torta che non facesse ingrassare oppure, meglio di tutti e per andare a colpo sicuro, doveva vestirsi da stronzo medio, da uno che le avrebbe trattate sempre male e che non sarebbe mai stato in grado di mantenerle. Sì, le donne andavano pazze per queste tre cose. Mi rammaricai di non potermi permettere un vestito da scarpa, sarei potuto andare alla grande.
Alla fine tutti presero qualcosa, io no. Se proprio mi fossi dovuto vestire avevo la conoscenza che avevo maturato nei numerosi anni di università e dei rispettivi toga party: legarmi una coperta intorno alla vita e fare il senatore romano.
Finalmente uscimmo da quel negozio e risalimmo in macchina, tutti contenti dei propri acquisti. Anch’io avevo deciso di prendere una maschera e di indossarla, l’unica maschera che non costava niente, a portata di tutti, comoda da tirare fuori e una volta indossata, nessuno faceva troppe domande. Certo era una maschera che non avrei mai indossato per rapinare una banca o un ufficio postale o un autogrill, ma il sorriso, prima di quel giorno, non l’avevo mai indossato. Per il carnevale era una maschera ottima. E forse anche per gli altri trecentosessantaquattro giorni rimanenti in cui non sapevo che faccia mettermi.

Andrea Knulp Roma



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