Anche se da fantasma
me ne andrò per dilettosui prati d’estateCosa voleva dire? Perché aveva scelto proprio quelle parole? Rivide i fantasmi disegnati in passato, il demone della gelosia ghignante, il fantasma di Khada e quello di Oiwa. Ridacchiò pensando che quest’ultimo era solo la lanterna che aveva visto prendere fuoco e accartocciarsi quando era bambino. Era già così potente, nel suo sangue, il colore? Non aveva desiderato altro che dipingere, non aveva amato nient’altro. Ringraziò nel profondo del cuore gli dei, che non lo avevano voluto contadino nei campi di riso. Quale condizione sventurata avrebbe potuto essere, per lui, quella di nascere mercante, ricco e benvoluto, ma senza la meravigliosa follia dell’arte? Cercò nel cuore la modestia ma il cuore gli rimandò l’immagine di una gigantesca pittura di Daruma, eseguita nel recinto del tempio di Gokuku, alla periferia di Edo. Erano solo lui, la sua pazzia, duecento metri quadri da dipingere con un pennello grande come una scopa e un barile di colore nero. Era accorsa una grande folla. Non c’era stata modestia, nel suo cuore, in quell'ora. E neanche il tempo per cercarla. Quelli del primo Daruma erano stati i giorni dei suoi quarantaquattro anni: non era ancora una tigre, e neanche un cucciolo di una tigre. Non era niente. Ma nel suo petto battevano già i cuori di tutte le creature che avrebbe illustrato, vere e fantastiche: quelli c’erano. Per loro aveva corso e corso e corso, e adesso era qua, con la caparbia volontà di vivere ma già per mano alla morte. Eppure avrebbe potuto ancora migliorarsi! Perché gli dei gli facevano proprio adesso questo torto? “Ancora un anno, ancora un anno …”, borbottò. Poi si assopì con un respiro che era un soffio pesante. La figlia gli si avvicinò e guardò il disegno della tigre. Guardò suo padre, seduto sulle ginocchia, tutto chino sul foglio, con il pennello ben stretto nella mano. La pesante coperta che si era messo sulle spalle, le impediva di vederne il viso. Era questa, la fine? Cosa doveva fare? Lo aveva amato e onorato per tutta la vita, e adesso era solo una vecchia silenziosa e spaventata, incapace di fare qualcosa di buono per lui.La mano del pittore si mosse e lasciò cadere il pennello di lato. Poi si strinse diventando un artiglio.La tigre nel sogno di Manji aveva il fiato pesante e il passo leggero, spiccava grandi balzi sulla neve e pareva volare. “Non mi avranno i cacciatori, non mi avrà la fame, non mi avrà l’inverno”, pensava avanzando nella tormenta “sarò io a decidere”. Si girò intorno cercando qualcosa che le fosse utile a compiere il grande salto. Vide il baratro e il grande cespuglio innevato che nascondeva alla vista un’altissima cascata.Sorrise la tigre, indugiando solo un ultimo istante.Sorrise Shunro, Sori, Hokusai, Taito, Itsu,Manji: i nomi di tanti uomini, per l’uomo che era pazzo per la pittura.La tigre saltò nel cespuglio, verso il vuoto, e con gli artigli trafisse le foglie tenere.Il vecchio pazzo, senza aprire gli occhi, intinse le unghie nella ciotola del colore verde e graffiò esattamente sul disegno, restituendo ai cespugli le foglie.
Poi, insieme, da fantasmi, se ne andarono per diletto nei prati d’estate. R.L. Hokusai, Vecchia tigre nella neve (1849)