Degli spostati linguistici.L'arrivo di sette studenti stranieri nella piccola città non è passato inosservato. Può sembrare strano che in un paese che vanta tante discendenze e misture etniche la presenza di qualche europeo appaia quasi un evento. In effetti non lo è quando ci vedono; lo è quando ci sentono parlare.Tra di noi si è imposta da tempo l'esigenza di una lingua franca. Lingua franca che, in questo frangente, è il francese. È la lingua della maggior parte di noi, dei corsi, di metà (ma quale metà) del master che stiamo frequentando; è anche la lingua per comunicare con i nostri referenti di qui, mentre - ci tornerò - proviamo lentamente ad apprendere il portoghese. Il fatto è che il francese non basta. Qualcuno qui non ne può più, e improvvisamente si mette a parlare in tedesco. E allora a stargli dietro, cercando di non incespicare troppo. Con gli amici del posto è il portoghese a non bastare - e non per ragioni psicologiche, ma proprio perché manca - e così si parla in inglese. Le lingue si alternano. Ciascuno di noi poi ha la propria lingua madre, che per alcuni non corrisponde a nessuna delle quattro citate. Le lingue si assommano. Il più delle volte ci si ritrova contemporaneamente insieme a tutte le fattispecie di persone menzionate. Le lingue si intrecciano.Le lingue si accavallano, in realtà. Stiamo scivolando verso una china sempre più pericolosa. Certuni si sentono infatti a disagio nel rimanere fermi ad una sola lingua, quando durante il giorno dobbiamo continuamente cambiarne due o tre. Questo nomadismo linguistico produce una singolare insofferenza all'idioma continuativo. Capitano quindi bizzarrie: iniziare una frase un francese, proseguire in inglese, concludere in tedesco (salutare, infine, in portoghese). All'inizio è divertente, buffo. Col tempo diviene agghiacciante.Degli spostati linguistici.
Sono partito da qui perché, in fondo, i variopinti siamo noi. Questo deve aver pensato quel tassista che accompagnandoci a casa, quella sera, ad un certo punto si è voltato e ha chiesto, costernato: "Ma in che lingua state parlando?" Questo devono pensare, soprattutto, i tanti che ci fermano nel campus o in città domandando, con una punta d'irritazione: "Ma perché non parlate portoghese?". Insomma, quando perfino un ragazzo nello spogliatoio della piscina ti blocca per chiederti "Ma questo è francese?" ci dev'essere qualcosa che non torna. A non tornare siamo innanzitutto noi, incamminatici come siamo sul sentiero della follia multilingue. Ma è anche il rapporto con gli stranieri. Il problema dell'apprendimento delle lingue può essere uno dei filtri attraverso cui leggere la crescita e la trasformazione del Brasile. Se, in generale, l'inglese non è molto diffuso, persino in campo accademico l'idea di lavorare in una lingua straniera è ancora per certi versi un tabù."It's crazy!" - esclama spesso Miojo, il nostro coinquilino-gigante buono. In effetti perché noi, che non siamo tutti francesi, dovremmo studiare in francese in un paese di lingua portoghese? Si capisce che lui lo considera una solta di insulto coloniale: che ci fate qui se non conoscete l'idioma del paese? È difficile spiegare che una lingua franca (non l'inglese, vivaddio) è un'opportunità per la piccola facoltà di filosofia dell'UFSCar per attrarre studenti extra-americani che non parlano necessariamente una lingua che non è sovente appresa.D'altronde l'idea che loro stessi debbano mettersi a parlare e scrivere in altre lingue nei loro studi si sta progressivamente facendo strada. Anche tra i docenti, talvolta restii ad uscire dal sentiero già noto della lingua madre. Tra un mese terremo qui una due giorni di studi sulla filosofia francese contemporanea: sono ammessi interventi in francese, portoghese e inglese. Sarà un bel caos produttivo. Ciò mi fa pensare ad un episodio accaduto al corso di portoghese qualche settimana fa. Il docente non riusciva a capire il nome di un'alunna asiatica: "Ma quindi ti chiami Babel?" Il suo nome ovviamente non era quello, ma il caso fortuito ci ha fatti avvicinare al problema. La confusione delle lingue. Come trasformarla da punizione divina in opportunità?Il Brasile ha un rapporto salutare con la confusione. Basta guardare questi volti che ci attorniano. Indigeni, portoghesi, italiani, tedeschi, africani, ... sono stati qui prima o poi e hanno creato la variopinta mescolanza di tratti che caratterizzano queste belle facce. Molti italiani, anche. O almeno così dicono. Ho trovato molte persone con nomi italiani, una legge generale che ho derivato dalle mie conversazioni è che chiunque qui ha una nonna italiana (non uno zio, un cognato, una cugina, sempre e solo una nonna), ma nessuno che sappia l'italiano o che abbia parenti in Italia a propria conoscenza. Meglio così.L'immagine migliore della variopinta confusione creativa sono forse i succhi di frutta brasiliani. In molti caffè e chioschi si possono gustare una miriade di nettari diversi, dall'arancia alla maracuja passando per l'acerola e il mango, al naturale o annacquati, con zucchero o con ghiaccio. Se proprio si ha coraggio si può tentare una vitamina, una sorta di frullato con tutti i frutti presenti - il che fa si che ogni volta abbia un sapore diverso. Le centrifughe girano a pieno ritmo e se poi avete anche un po' di fame potete sempre prendere un salgado, delle palline ripiene di carne, formaggio (l'onnipresente e un po' inquietante catupiry), uova, oppure sfogliate di prosciutto, ricotta ecc. La possibilità di mangiare con degli stuzzichini invitanti è notevole. Non sono male i pastel, sorta di frittelle salate ripiene di carne, formaggio ecc. Una volta fatto il pieno di salgados potete mettervi in moto. Noi siamo andati a San Paolo. La vista dall'alto dell'Edificio Martinelli può spiegare molte cose. La città ci si presenta come una lunga teoria di grattacieli e palazzi di cemento, costruiti su strade non rettilinee e quasi mai perpendicolari, che vanno a formare un impressionante, tentacolare reticolo irregolare di vie case uffici sopraelevate. Il traffico è notevole, più notevole ancora la cappa grigia dello smog che attornia la città. Sarà per questo che chi se lo può permettere viaggia in elicottero. In un solo giorno, senza particolare impegno, ne abbiamo contati circa quaranta. La città si riflette su se stessa ripetendosi all'infinito, è città a perdita d'occhio. È a quel punto che l'immagine di disordinato, interminabile grigiore che domina il primo sguardo deve essere superata. Scendiamo nelle strade, e vediamo piccole oasi di verde che la punteggiano qua e là, e quel movimento colorato che formicola per i quartieri, a disegnare l'anima molteplice insufflata tra i palazzi di cemento. Un'anima che, forse, sta tutta o quasi fra i due musei che abbiamo visitato: la Pinacoteca di Stato, simbolo di una borghesia coloniale, attratta dall'Europa, che manda i propri artisti a dipingere vedute del Canal Grande (ma non perdetevi Anita Malfatti) e il Museo Afro-brasiliano, che racconta una storia diversa, fatta di gauchos e missionari, ma anche di giocattoli di Bahia, di pittori indigeni, di storie dell'immigrazione e della schiavitù. Il Brasile sembra racchiuso qui dentro. Entrambi i musei hanno poi il vantaggio di trovarsi immersi in un parco, soprattutto il secondo, nel Parque Ibirapuera (e l'edificio è di Oscar Niemeyer). San Paolo è variopinta in un altro modo. Ti mette davanti alla commistione di classi, te la sbatte in faccia. In centro i grandi palazzi delle banche private sono accanto a dimore fatiscenti. Nei quartieri attorno i super ricchi abitano di fronte alle favelas. Dove non siamo andati, non abbiamo questo tipo di curiosità un po' morbosa. Miojo di cui sopra ci ha fatto una predica: ma perché mai dobbiamo visitare quei quartieri? Una cosa troppo da turisti ricchi - ci sono anche agenzie che organizzano questi tour. In ogni caso le abbiamo viste uscendo dalla città in autobus. Vi sono case a mattoni senza intonaco, piccole baracche. Non mi hanno fatto una particolare impressione, comunque. Ma non ne so nulla. Ci tornerò prossimamente. Siamo stati invece in un quartiere molto ricco, attorno alla rua Oscar Freire. Si respirava uno strano silenzio che non sentivamo altrove. Le vie sono cadenzate da condominìos fechados, i palazzi residenziali dei ricchi con le guardie, le telecamere, la palizzata elettrificata. Ci sono i negozi delle grandi firme europee, c'è quello ufficiale delle Havaianas. Mi son detto che questa borghesia è un po' la continuazione della pinacoteca. C'è un ansia di essere diversi, che vuol dire essere il più possibile europei, così come una brama di mostrare la propria ricchezza. Per questo, mi son detto, "Vedrai che tra le Havaianas qui troveremo la versione Swarowsky". Puntualmente accaduto. Poi il solito: le turiste giapponesi che ne acquistano cento (ma che matte, hanno quei bellissimi geta), gli italiani che vogliono sempre il modello in cui manca la loro taglia, le famiglie brasiliane in grande spolvero per la vasca del sabato pomeriggio. Usciamo, anzi fuggiamo e ci gettiamo in quartieri più amabili, come quello dei bar di rua Augusta o di Villa Madalena. Io ho incontrato un vecchio amico paulista in un club lesbico non particolarmente interessante, se non per il fatto di avermi fatto pagare una birra 17 reais. Forse si può concludere questo posto con la visita ad un quartiere simbolo (che, in realtà, è stata la prima cosa vista a San Paolo): Liberdade. È il quartiere dei giapponesi, immigrati in gran numero qui in passato. I paulisti nipponici sono la più grande comunità giappa fuori dal paese d'origine. Il primo vantaggio, per noi, è mangiare degli ottimi sushi o degli ottimi hudon pagando pochissimo. In un certo senso a San Paolo i giapponesi fanno le veci dei cinesi in Europa. Ristoranti, drogherie, negozi "tutto a 1 real" sono in mano loro. Percorriamo la via che si apre con un rosso portale in stile e scegliamo a colpo sicuro un piacevole ristorante. Non ho mai visto così tanti giapponesi insieme. San Paolo è piena d'italiani, dicono, ma sono talmente radicati da essere divenuti trasparenti alla vista.È forse questo radicamento che colora gli spazi e li rende vivi. E stasera parto per Rio de Janeiro.
da TEMPI FRU FRU http://www.tempifrufru.blogspot.com