in effetti, il tempo è virtuale di per sé, lo è sempre stato. il paradosso odierno sta nell’accostargli uno spazio che se ne accaparra il distintivo. con tutto quello che ancora gli scienziati non hanno capito sulle dinamiche e sulla realtà dell’universo che contiene questo nostro pianetino, la cosa certa è che un tempo relativo si riesce a misurare sulla distanza degli spazi reali, talmente reali che il cosmo mima il respiro di un continuo movimento. ora che da noi anche lo spazio ha perso di realtà nel configurare l’esperienza, è come se fosse caduto l’attaccapanni che teniamo all’ingresso della nostra bella casa. non c’è più dove appendere l’occhiello del tempo che continuamente cade a terra e si sgretola con tutte le macchie che l’intera giornata gli ha lasciato nel mantello: cose importanti, incontri interessanti, piccole sorprese e scorci inediti nel solco che collega i nostri luoghi quotidiani.
guardando le stelle lontane, il telescopio sa di guardare indietro nel tempo. ma noi, guardando l’ultimo video girato stamattina in culo al mondo, sappiamo che quel momento corrisponde all’alzatina di chiappa che ho fatto sulla sedia per lasciar andare l’impalpabile di me, solo davanti a uno schermo super piatto ad altissima fedeltà (fedeltà a se stesso, non a me). ormai basta così poco, anzi niente; nulla si frappone tra me e il mio poter essere raggiunto da chiunque in qualunque momento e posto si trovi il disturbatore. e le compagnie pubblicitarie sfoggiano una retorica esaltante la prigione, l’accerchiamento: «tutto il mondo intorno a te», «tutte le vendite, minuto per minuto». aver cancellato il tempo, insomma, è oggi un vanto. aver cancellato la primaria valenza significativa dello spazio, che è quella materica, è anche esso un vanto. cento dischi in un Ipod, dieci libri in un E-book. ma le orecchie restano due e così pure gli occhi. e due sono le mani, e due le gambe e i miei piedi.
e due i sentieri del tempo che a ogni passo si biforca e il nostro compito è soltanto risalirne il corso che ci siamo creati a sua insaputa. e leggere e rileggere decine e decine di volte lo stesso paragrafo di Timore e Tremore, ascoltare cento volte lo stesso Adagietto mahleriano, per capire quando eravamo quelle cose e dove siamo ancora in quelle cose. fin tanto che il tempo era irreale, lo spazio era reale e il mondo era materico, avevamo la possibilità di esaltare l’intimo fiato che ci fa svegliare la mattina. ora che il tempo è reale e lo spazio è irreale, ora che il mondo è alla rovescia rispetto a quando sono nato, io mi sento a volte solo carne chiusa in gabbia a cercare di capire se la zampa che fa un passo e poi si ferma è mia davvero, ché non me la ricordavo. … perchè tutto è ormai minuscolo.