Teoria dei tratti dominanti

Creato il 06 settembre 2010 da Bruno Corino @CorinoBruno

 

Ad emergere con sempre più forza ed evidenza, e ad attrarre sempre più la mia attenzione è il concetto di reciprocità. A dire il vero, la reciprocità più che un concetto rappresenta una “visione della realtà”, come si sarebbe detto un tempo. Effettivamente non so neanch’io esprimere tutto ciò che la reciprocità implica. Senza dubbio implica una visione duplice del mondo, nella quale ogni volta che si pone qualcosa per forza di cose si pone qualcos’altro. Pensare attraverso la reciprocità ha segnato per me la fine di una visione unilaterale e polare dell’essere: nella reciprocità ciò che diventa importante non è l’elemento che entra in gioco, ma come esso si relaziona a un altro elemento. In altri termini, con essa, attraverso essa si supera ogni concezione individuale dell’essere per porsi in una concezione totalmente duale e bipolare. Quando mi trovo a discutere con qualche amico, mi è difficile spiegare in che consiste questa concezione duale e bipolare dell’essere. Una tale visione dell’essere è talmente radicale nella sua sostanza che talvolta mi è capitato nel corso di questo lavoro di non essere neanch’io strettamente conseguente nelle sue conclusioni.

Anzitutto, ciò che la tradizione filosofica ha sempre attribuito all’essere delle cose, in realtà è attribuibile alla loro relazione. Per fare un esempio, il concetto di potere o di dominio non diventa un attributo dell’essere, ma un attributo della relazione tra due o più elementi; ma soprattutto, ad essere messo definitivamente in crisi è uno dei concetti più consolidato e indiscusso della tradizione filosofica: il concetto di “azione”. L’idea che gli agenti sociali agiscono è sempre apparsa come una verità indiscutibile, così come l’idea che le azioni siano un’emanazione o una manifestazione del nostro essere individui sociali o soggetti individuali.

La reciprocità mi ha fatto comprendere che in realtà noi non agiamo, ma interagiamo: nello stesso istante in cui un essere interviene nel mondo, egli entra necessariamente in contatto con esso. L’essere in contatto vuol dire che ogni elemento che fa parte di questo universo interagisce con tutto ciò con cui viene in contatto. Ogni atto compiuto ha un effetto di reciprocità: quando tento di aprire il tappo di una bottiglia, io non sto compiendo un’azione, ma sto interagendo con quella bottiglia. Quando tento di forzare qualcosa, io non avverto soltanto la mia pressione ma avverto anche la resistenza che l’oggetto mi oppone. Quando cammino per strada avverto la durezza del terreno, la forza delle gambe che tagliano l’aria, la capacità di sollevare il piede dal terreno tenendomi in equilibrio contro la cosiddetta forza di gravità. E così accade quando tento di spostare un oggetto che mi limita la vista. O quando qualcuno oppone un rifiuto arbitrariamente a qualcosa che mi spetta, quel rifiuto lo avverto come una resistenza non alle mie forze ma al mio Sé, al mio diritto di avere un ambito non violato.

La reciprocità è posta come un principio ontologico, come un presupposto o un fondamento indimostrabile. La reciprocità concettuale mi porta a concepire la realtà dell’essere come un sistema circolare. In questa teoria della reciprocità, ogni concetto si configura come una sorta di “semi” o di “omeomerie”: in ogni concetto sono presenti, seppur in modo implicito, tutti gli altri concetti. Per rendere chiaro questa visione omeomerica del concetto è sufficiente partire da come viene proposto il concetto del Sé: configurandolo come ambito non disponibile, si pone per necessità il concetto di limite, poiché ogni ambito deve essere per forza di cose delimitato. La non disponibilità ha senso però soltanto quando è posta in relazione a qualcos’altro di diverso da sé, cioè a un alter; ma ciò vale soltanto in un contesto interattivo, altrimenti il problema di un alter non si pone nemmeno. In un contesto interattivo si pone il problema del riconoscimento reciproco di un limite che non può essere violato. Il riconoscimento implica l’attribuzione di un punto di vista. Allo stesso tempo, il rispetto o il non rispetto del limite del proprio ambito implica che è presente all’interno della relazione interattiva un rapporto di forza o di potere tra Ego ed Alter. Il rispetto e il riconoscimento sono imposti da regole sociali che hanno la funzione di circoscrivere un ambito entro il quale è possibile interagire. Finché i limiti di ogni specifica interazione sono rispettati gli agenti interagiscono con “distacco”; il loro essere ignorati, l’essere superati o elusi implica il coinvolgimento del Sé. Ciò richiama il processo di appropriazione o di sottrazione dell’ambito, e il processo di identificazione e di differenziazione; così come richiama quello di affermazione e preservazione del Sé. Ogniqualvolta si viola questo ambito si mettono in atto specifiche modalità tese ad accrescere o a ridurre l’ambito non disponibile del Sé; si può prevaricare in modo coercitivo, superare o influenzare, suggestionare l’altro a eludere il limite interazionale; e così via, per altri concetti, quali quello di aspettativa, previsione o attesa. Da questo esempio si può capire perché se vado a modificare un solo tratto della visione concettuale ciò avrà delle ripercussioni sull’intera teoria. È chiaro che, dati questi presupposti, la mia teoria dei tratti dominanti, si proponeva come una teoria aperta.


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