Non sa nemmeno come dirlo a me, a me che sono la sua migliore amica, quella che le offre torte e che subisce il suo pianto, che fa salti mortali per scavalcare la città per tempo e scoprire poi che le si è solo rotto il tacco o che la crisi è dovuta al fatto che l’abito rosso le sta troppo stretto.
Fa finta di niente la mia amica Teresa mentre ride leggermente, voltata di spalle, e si diverte nel ritardare la confessione, il segreto del sottile piacere provato nell’averne messo uno finalmente sotto i piedi, nell’aver goduto dell’imbarazzo della sconfitta, della delusione dipinta su quel viso, amato così tanto.
Ha anche il coraggio di gorgheggiare un sovracuto –torno subito- prima di dissolversi nel sole che luccica nella finestra al termine del lungo corridoio, prima di scomparire del tutto dietro la porta del bagno.
I colori di Chagall che brillano alle pareti, e gli specchi, che qua e là offrono di me e della stanza immagini diverse, mi fanno ripensare alla girandola di buon umore che avvolgeva Teresa la prima volta che la vidi, mentre china su un baule di un negozio dell’usato cercavo una borsa anni settanta per una festa a tema.
Mi accorsi di lei perché quasi cantava raccontando a un’amica una storia strana, confusa, e così piena di digressioni e paradossi, da non poter credere che quel tipo che descriveva come un divo di Hollywood, l’avesse seguita veramente. E parlava di sguardi e cenni d’intesa, di particolari ammonimenti di sua nonna e dei possibili trucchi per trattenere l’uomo a sé, e mi parve all’improvviso di essere in un mondo rosa confetto, di essere capitata nell’universo infantile, fragile e volubile, di chi di continuo da asilo all’amore.
Ero finita nel magico mondo di chi l’amore lo inventa in qualsiasi momento e così lo distrugge.
E al termine esatto di quel breve ricordo, eccola che riappare in un lungo chimono dai colori vivaci e mi guarda: ha un che di diverso dipinto sul volto.
Mi guarda e mette in ordine i ricci puntando alla meglio bacchette e matite e finalmente incomincia il racconto.
«Te lo ricordi Francesco?»
Un nome troppo diffuso penso. Timidamente le domando un altro elemento come in un gioco a quiz della buonanima di Mike Buongiorno.
«Te lo ricordi quello che mi ha tenuta sulla corda per tre mesi con quel generico -ti chiamo-?»
Porca miseria Terè e dammi qualche altro elemento! Ma per non offenderla vario con un più gentile –non ricordo-.
Guarda in alto e sceglie il terzo indizio, inspira profondamente e tutto d’un fiato espira l’enigma.
«Francesco, quello che poi quando ci uscii scoprii che vedeva solo action moovie, e che lavorava per una società creditizia, e che in piena notte gli prendevano le crisi di panico per la caduta o l’improvvisa ascesa dei titoli di borsa»
Finalmente ci arrivo! E ovviamente mi do della cretina visto il risultato che quella specie di relazione infausta aveva prodotto in Terry e che, grazie a lui, ingrassò di sei chili e si riempì di brufoli dopo essersi abboffata di caramelle Mou e cannoli.
E anche lei a quel ricordo inizia a ridere, e sembra non fermarsi più, come se tutta la gioia ricevuta da quei dolci in quel tempo lontano e già dimenticato, fosse rientrata in circolo all’improvviso, come l’effetto di uno stupefacente dopo una lunga corsa o dopo aver fatto sesso.
Ma solo alla fine del racconto riesco a capire fino in fondo.
«C’è soddisfazione» dice Teresa ancora accaldata da quell’improvviso furore, «quando guardi i suoi occhi ancora incoscienti, quando più lui insiste più lo guardi indifferente...»
e si passò la lingua sulle labbra, come proprio lì davanti avesse visto una grassa coppa di panna montata
«non lo sapevo, ma si prova piacere nel vedere la speranza che scolora sul viso lentamente e che infine diventa sconfitta...»
E si versa limonata sul ghiaccio che per un breve istante fuma.
«Francesco chiedeva e io mi negavo, Francesco pregava e quasi ridevo, è anche inciampato correndomi dietro quell’uomo arrogante vestito alla moda»
«Si chiama vendetta!» le faccio notare.
«Lo so, e mi piace!» risponde felice.