Titolo: Terre al crepuscolo
Autore: John Maxwell Coetzee
Editore: Einaudi
Anno: 2003
Traduzione: Maria Baiocchi
"Terre al crepuscolo" è un romanzo che si potrebbe collocare sulla scia di "Cuore di tenebra" di Conrad, un testo cioè che recupera il tema del colonialismo e mostra l'oscurità che circonda le fatue luci della civiltà occidentale.
Il romanzo è composto da due novelle, rispettivamente "Progetto Vietnam" e "Il racconto di Jacobus Coetzee": recuperando un sapiente gioco di ruoli tra autore, narratore e personaggi, che tende a confondere il lettore e poi a farlo sorridere una volta smascherato l'inganno, il primo racconto parla delle difficoltà che il protagonista-narratore ha di fronte alla necessità di dover modificare il proprio lavoro, il "progetto Vietnam" appunto, perché secondo il suo capo poco confacente alla esigenze militari. Di fatto, Eugene Dawn si occupa della propaganda degli strumenti di una guerra psicologica in Vietnam: non è mai stato sul campo di battaglia, è solo un teorico, ma lui "è il suo lavoro". La voluta identità con il progetto porta ad una compenetrazione tra autore e creazione: l'esperienza è tanto intensa che gli effetti riportati non saranno dissimili dalle conseguenze psicologiche che molti soldati americani riportarono dopo il loro ritorno negli Stati Uniti. La narrazione pare in un primo momento basata su un flusso di coscienza, tanto che gli avvenimenti sembrano posti sul piano della contemporaneità; soltanto nelle ultime pagine si capisce bene che, in realtà, è tutta un'esposizione retrospettiva.
L'altra novella è ancora più elaborata sul piano della finzione, perché qui non solo si narra delle esplorazioni condotte dall'olandese Jacobus Coetzee nel 1760, nell'entroterra del Sudafrica, ma l'autore reale precisa anche, in una prefazione all'opera, che la vicenda è stata per la prima volta pubblicata da suo padre e lui non ne è altro che il traduttore; il tutto sarà poi riprodotto, in un'appendice, nella relazione inviata al governatore della colonia olandese.
Tutta la narrazione è permeata da una forte ironia (essendo la storia raccontata in prima persona) che si abbatte impietosa contro lo sterminio delle popolazioni autoctone e le credenze di superiorità degli europei. Jacobus dovrà far fronte ad una serie di difficoltà, sicuramente degne di nota per il rischio che sottendono, ma mai lascerà trasparire un sentimento di umanità, nemmeno verso coloro che hanno offerto aiuto nel momento del bisogno. Il viaggio di ritorno dalla spedizione viene inaugurato come un ritorno alla civiltà, ma il sangue che questo viaggio comporta prima con la perdita del suo servitore, e poi della strage che si preparerà a compiere, fanno sorgere i dubbi su chi sia il selvaggio in tutta la questione della colonizzazione e se questo ritorno sia mai avvenuto.
L'ironia si fa ancora più tagliente nella post-fazione: idealmente scritta dal padre di Jacobus, nella sua prima edizione del 1951 aveva accompagnato la pubblicazione e si conclude con la speranza di aver reso la straordinarietà di quest'uomo. Il lettore però non può che alzare un sopracciglio... perché da tutta la storia ha ricavato tanto, ma non di certo la grandezza di Jacobus.
Un romanzo sicuramente inquietante, che non risparmia in nessun modo dettagli crudi, a volte esasperati da una rappresentazione grottesca, perché il grottesco e l'orrore non possono essere altro che gli effetti prodotti nel lettore che ha sì una conoscenza storica delle varie vicende della colonizzazione, ma non ha invece idea di cosa possa aver rappresentato questa invasione della civiltà occidentale nelle culture autoctone dell'America, dell'Africa e dell'Asia: non è un caso che l'opera risalga al 1974, un decennio cioè che ha alle spalle tutto il fenomeno della decolonizzazione.