Lunedì 21 ottobre, Barack Obama e Mitt Romney hanno incrociato per l’ultima volta i loro fioretti, prima delle elezioni del 6 novembre.
Il terzo e ultimo dibattito si è tenuto a Boca Raton, in Florida, proprio là dove, in maggio, Romney, parlando a porte chiuse ai suoi sostenitori, aveva usato detto che non intendeva prendersi cura di quel 47% di americani che dipendono dallo stato e dal suo welfare e che non avrebbero mai votato repubblicano.
Anche questa volta, come nel caso del dibattito tenuto a Long Island, il presidente è riuscito ad avere la meglio.
Tutti i sondaggi dei giorni successivi hanno concordato nel riconoscere ad Obama maggiore preparazione, prontezza e capacità di analisi rispetto a Romney.
E’ vero che l’argomento della tenzone era la politica estera, un cavallo di battaglia per Obama, tuttavia, anche in questo caso il presidente è riuscito a prevalere nettamente sul repubblicano.
La mancanza di esperienza internazionale dell’ex governatore del Massachussets è apparsa in tutta la sua evidenza, stridendo in modo lampante con l’estrema preparazione di Obama in tema di sicurezza nazionale, esaltata anche dall’impresa che ha portato all’uccisione di Osama Bin Laden nel 2011.
A tratti il presidente è apparso anche irriverente e sarcastico verso il suo avversario, come quando, per contestare il fatto che, secondo Romney, la marina americana dispone oggi di meno navi di quante ne aveva nel 1916, Obama ha colto la palla al balzo per dire che, rispetto ad allora, molte cose sono cambiate, ad esempio, gli Usa dispongono di navi ben diverse, ad esempio le portaerei o navi in grado di andare sottacqua, come i sottomarini.
L’ilarità generale era inevitabile e anche il repubblicano, consapevole di essersi messo in trappola da solo, non ha potuto fare altro che sorridere.
Tuttavia, anche in questa occasione, come negli altri due dibattiti, pur se surclassato da Obama negli argomenti e nelle proposte, Romney non ha sfigurato.
Malgrado la politica estera non fosse la sua specialità, è riuscito comunque a dare una parvenza di autorità e “likability”, come direbbero gli americani, di gradevolezza della sua candidatura, un accento che potrebbe avere effetti importanti sugli elettori indecisi, quelli cioè che non sono né certamente repubblicani, né sicuramente democratici e che sono il vero ago della bilancia delle elezioni americane.
Certo Romney non ha la preparazione di Obama, né ha mostrato di avere grandi disegni per il palcoscenico internazionale (come del resto non li ha nemmeno il presidente) tuttavia, in base alle risposte che ha dato, è parso un candidato credibile, moderato e in grado, se messo alla prova, di riuscire a destreggiarsi in modo analogo a quanto compiuto finora dal democratico.
Naturalmente non si può prescindere dalle nefaste influenze neocon che, dopo l’esperienza di George W. Bush e se l’ex governatore riuscisse a scalzare Obama, tornerebbero a fare capolino alla Casa Bianca, tuttavia, ad oggi, dopo i tre dibattiti, una presidenza Romney non è parsa così infausta come l’hanno descritta mesi di propaganda negativa democratica.
Un’altra particolarità emersa dall’ultimo confronto tra i due candidati alle presidenziali è stata la totale assenza dell’Europa e delle sue problematiche politico-economiche.
Gli Stati Uniti, sia che sia confermato Obama, sia che sia sostituito da Romney, non guardano più al continente europeo con la stessa intensità e considerazione di quanto accadeva durante la Guerra Fredda.
E se vi guardano, come nel caso di Romney, è per additare ai proprio elettori l’esempio europeo come una esperienza da rigettare.
Decine e decine di volte, negli ultimi mesi, il repubblicano ha sostenuto che se Obama restasse alla Casa Bianca per altri quattro anni, grazie alle sue politiche redistributive, gli Usa farebbero la fine della Grecia o della Spagna.
L’Europa non è più quindi la bussola di Washington: altri sono i punti di riferimento degli americani, dalla Cina al sud-est asiatico nel suo complesso, veri centri dello sviluppo mondiali.
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