Miracolo a Le Havre è una favola di buoni sentimenti, un panorama in cui Aki Kaurismaki inserisce solo personaggi dal cuore d’oro.
Marcel ha smesso di scrivere e si è ritirato a Le Havre, dove vive facendo il lustrascarpe ambulante, bevendo nel bar del paese ed amando alla follia la moglie.
L’apparizione di un bambino migrante in arrivo dall’Africa che cerca di raggiungere Londra e la contemporanea malattia della moglie lo costringeranno ad affrontare la realtà, ma al suo fianco si schiera l’intero paese, pronto a superare i limiti della burocrazia e delle leggi francesi.
Una favola senza dubbio, che però pianta saldamente le radici in due avvenimenti drammatici.
L’apertura del container che nasconde gli immigrati è un momento di forte drammaticità, il modo in cui la moglie cerca di proteggere il marito dalla verità triste della sua malattia è dolce poesia nel dramma reale.
Ma Miracolo a Le Havre è anche pieno zeppo di battute estremamente divertenti e di personaggi da ricordare, su tutti l’incredibile cantante Little Bob.
Straordinaria l’interpretazione di Andrè Wilms, circondato da una scenografia nanturale che ci porta in un mondo di frontiera che appare lontano dalle cronache quotidiane dei giornali.
E così quando la cronaca arriva a Le Havre la popolazione è costretta ad affrontarla, e lo fa con estrema leggerezza.
Il film è lento, delicato, anche troppo.
I personaggi sono buoni, tutti, anche quelli che dovrebbero essere cattivi, anche troppo.
Una favola, appunto, sapientemente diretta e guidata fino in porto da Kaurismaki, che timido lo è al punto da disertare la serata inaugurale del Festival durante la quale avrebbe dovuto ricevere il Gran Premio Torino.
E il miracolo del titolo?
C’è, anzi, ce ne sono almeno un paio…