Thailandia: analisi di una crisi di sistema

Creato il 27 giugno 2014 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
L’evoluzione dell’ultima crisi politica

Il 22 maggio, il comandante dell’Esercito thailandese, il Generale Prayuth Chan-ocha, ha comunicato alla popolazione la presa del potere da parte dei militari, realizzando il tredicesimo colpo di Stato militare dal 1932, anno in cui la Thailandia divenne una monarchia costituzionale. L’annuncio era stato preceduto, due giorni prima, dall’imposizione della legge marziale, misura necessaria, secondo quanto dichiarato dagli stessi vertici delle forze armate, a ripristinare l’ordine e la pace nel Paese.

La storia, dunque, si è ripetuta ancora una volta in Thailandia, sollevando una serie di interrogativi circa le ragioni profonde di un’instabilità politica che grava in misura sempre maggiore sul futuro del Paese.

L’escalation che ha portato al colpo di Stato del 22 maggio è iniziata lo scorso novembre, con il tentativo del governo di fare approvare dal Parlamento una legge di amnistia per tutti i crimini politici commessi tra il gennaio 2004 e l’agosto 2013, inclusi i reati di corruzione e omicidio. Del provvedimento avrebbe beneficiato anche Thaksin Shinawatra, fratello dell’allora Primo Ministro Yingluck, che nel 2008 venne condannato in contumacia a due anni di carcere per appropriazione indebita, e che da allora ha vissuto in un esilio auto-imposto tra Londra e Dubai. Grazie all’amnistia, Thaksin (anch’egli a capo del governo dal 2001 al 2006) sarebbe tornato anche in possesso di beni del valore di 1,6 miliardi di dollari, sequestratigli dalle autorità in seguito alla condanna.

Presentata da Yingluck Shinawatra come il tentativo di superare anni di violenze e odi, mettendo finalmente in moto un processo di riconciliazione nazionale, l’amnistia aveva da subito incontrato una forte opposizione popolare, tale da spingere lo stesso governo a ritirare il proprio sostegno nei confronti del provvedimento.
Sebbene l’obiettivo del movimento di protesta anti-governativo (il People’s Democratic Reform Committee – PDRC, guidato da Suthep Thaugsuban, ex-deputato del Democrat Party – DP) fosse stato raggiunto, i disordini erano proseguiti anche nelle settimane successive, mettendo a nudo il reale obiettivo della Piazza: eliminare l’influenza della famiglia Shinawatra dalla scena politica nazionale.
Con le dimissioni dei deputati del DP, l’8 dicembre, la crisi assumeva un carattere istituzionale, costringendo il Primo Ministro a sciogliere l’Assemblea e indire elezioni anticipate per il 2 febbraio.
Boicottate dall’opposizione, le votazioni si rivelavano, tuttavia, un inutile esercizio di democrazia, ostacolato, inoltre, dall’ostruzionismo dei dimostranti anti-governativi. L’impossibilità di votare in ventotto circoscrizioni meridionali del Paese forniva, così, alla Corte Costituzionale, le basi giuridiche, peraltro assai discutibili, per annullare le elezioni (dove il partito di governo, il Pheu Thai – PTP, era dato per assoluto favorito) e aggravare, in questo modo, la già precaria situazione politica.

Il 7 maggio, assestando un colpo definitivo alla tenuta del governo presieduto da Yingluck, la stessa Corte sollevava dai rispettivi incarichi il Primo Ministro e altri membri dell’esecutivo, tutti accusati di “abuso d’ufficio”. Il giorno successivo, l’ormai ex-Primo Ministro veniva anche incriminata dalla Commissione Nazionale Anti-Corruzione, con l’accusa di “negligenza di dovere” nell’ambito di un costoso programma di sussidi ai produttori di riso, la cui gestione sarebbe stata contraddistinta da numerosi episodi di corruzione, e il caso veniva trasferito al Senato, chiamato a votare l’eventuale impeachment di Yingluck.

Magistratura e agenzie “indipendenti” dimostravano, ancora una volta, la propria ostilità nei confronti degli Shinawatra, alimentando la rabbia delle cosiddette “camice rosse” (formalmente United Front for Democracy Against Dictatorship – UDD), pronte a riversarsi in piazza e far valere con la forza le proprie ragioni.
Il golpe militare del 22 maggio sarebbe, dunque, stato motivato dal protrarsi dello stallo politico (con gli ingenti danni che ne sono derivati per l’economia) e dal timore di assistere a un rapido deterioramento del quadro di sicurezza che facesse ancora salire il bilancio delle vittime per gli episodi di violenza politica (ventotto dall’inizio dei disordini a novembre).

Un’analisi più approfondita dell’ultima crisi politica thailandese rivela, tuttavia, uno scontro politico che si protrae ormai da diversi anni e sul cui sfondo si muovono dinamiche legate alla sempre più imminente successione al trono. Una lenta e dolorosa riconfigurazione degli equilibri di potere, il cui esito non è affatto scontato.

Alle radici dell’instabilità politica

Il quadro socio-politico thailandese vede oggi la netta opposizione tra elitisti – esponenti della monarchia, dell’aristocrazia e delle forze armate, oltre che uomini di affari e membri dell’intellighenzia tradizionalmente vicini a questi ambienti – e populisti, ossia contadini e appartenenti alla classe media emergente. A livello geografico, il primo blocco è concentrato a Bangkok, nelle province circostanti e nel sud del Paese, mentre il secondo è prevalentemente circoscritto al nord e al nord-est del Paese. Questa frattura è andata approfondendosi negli anni, tanto da apparire oggi insanabile.

La più efficace chiave di lettura della lunga crisi politica thailandese può essere individuata nell’evoluzione economica e politica del nord-est del Paese. Sotto controllo thailandese dalla fine del XIX secolo, quest’area è abitata in prevalenza dagli Isan, comunità che racchiude al proprio interno diverse etnie (Laotiani, Khmer, Phu Tai, Vietnamiti, ecc.). Durante il XX secolo, questa regione fu sottoposta ad un’intensa politica di assimilazione, il cui obiettivo era volto alla “thailandizzazione” di queste popolazioni.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando la Thailandia divenne il fulcro della strategia americana di contenimento del comunismo, il nord-est del Paese assunse un’importanza strategica, a causa della sua vicinanza a Laos e Cambogia e al conseguente timore di incursioni militari straniere. Oltre a politiche di sviluppo agricolo, fu dunque portata avanti una sistematica azione repressiva, tesa a sopprimere eventuali sacche di dissidenza.
Il nord-est rimase sempre emarginato dal resto del Paese sia a livello politico sia a livello economico. Le imposte sulla sua produzione di riso non vennero investite dalle autorità per costruire infrastrutture nella regione o per incrementare il benessere delle popolazione locale, ma servirono a promuovere lo sviluppo dell’industria e del sistema infrastrutturale della capitale e dell’area circostante. Negli anni, dunque, aumentò costantemente la diseguaglianza tra Bangkok e il nord-est del Paese, solo in parte compensata dai flussi migratori e delle rimesse.

La situazione rimase pressoché inalterata sino al 1997, anno in cui scoppiò la crisi finanziaria asiatica. Dagli anni sessanta fino alla crisi finanziaria del 1997, il Prodotto Interno Lordo (PIL) della Thailandia era cresciuto a un ritmo medio annuo del 7%. Tuttavia, a beneficiare dello sviluppo economico erano stati soprattutto i tradizionali gruppi economici, mentre la classe rurale ne aveva beneficiato solo marginalmente. Le proteste che si registrarono nel 1992 contro la giunta militare segnarono una svolta nella vita politica del Paese, evidenziando il malessere di una parte consistente della popolazione contro la tradizionale gestione del potere.

Fu, tuttavia, la crisi finanziaria ad accelerare il processo di trasformazione sociale in corso da tempo. Essa, infatti, peggiorò ulteriormente le condizioni di vita dei residenti del nord-est, come evidenziato dal rapido e significativo aumento della percentuale della popolazione in condizioni di povertà, passata dal 19%, nel 1996, al 31%, nel 1999. La crisi, inoltre, costrinse l’allora Primo Ministro, un esponente del Democrat Party, ad adottare politiche di austerity dettate dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), alimentando il forte malcontento della popolazione thailandese.

Complice anche l’introduzione di una nuova Costituzione che modificava le regole elettorali (con il passaggio ai collegi uninominali), emersero, dunque, le condizioni che portarono alla nascita, nel 1998, del Thai Rak Thai (TRT), partito guidato dal ricco uomo d’affari, Thaksin Shinawatra, la cui discesa in campo ha profondamente modificato il quadro politico thailandese.

Per la prima volta nella storia della Thailandia, il nord-est assunse un reale rilievo politico, venendo, anzi, posto addirittura al centro dell’agenda di questo nuovo partito. Con la promessa di una moratoria sui debiti dei contadini, di prestiti a tassi inferiori rispetto a quelli di mercato e di un accesso pressoché gratuito alla sanità, Thaksin riuscì a fare presa sulla popolazione del nord-est, che elegge circa un terzo dei membri del Parlamento thailandese.

Il TRT ottenne una facile vittoria alle elezioni del 2001 e negli anni successivi riuscì addirittura ad allargare la propria base di consensi, adottando politiche pro-mercato (promozione degli investimenti esteri) e dimostrandosi un responsabile attore politico (vennero, infatti, attuate le riforme dettate dal FMI).

La netta vittoria ottenuta alle elezioni del 2005 rappresentò un preoccupante campanello d’allarme per l’opposizione politica e, più in generale, per i tradizionali ambienti di potere. Forte del vasto consenso di cui godeva, Thaksin assunse uno stile di governo sempre più spregiudicato, smettendo, ad esempio, di consultare il Privy Council, influente organismo di nomina regia che riveste un ruolo molto importante nella vita politica thailandese. Ciò alimentò il sospetto, più o meno fondato, che l’obiettivo ultimo del leader del TRT fosse quello di emarginare progressivamente la riveritissima figura del sovrano, Bhumipol Adulyadej.

Si giunse così al colpo di Stato militare del 2006, tentativo, rivelatosi vano, da parte dei militari e degli ambienti a essi collegati, di ripristinare il tradizionale ordine delle cose. Thaksin Shinawatra fu accusato di corruzione, autoritarismo, tradimento e lesa maestà, e condannato in absentia, nel 2008, a due anni di detenzione. Tuttavia, ha continuato a esercitare un’influenza decisiva sulla scena politica thailandese anche negli anni successivi, come dimostrato dalle nette vittorie elettorali ottenute da allora dai vari partiti a lui riconducibili, da ultimo quella conquistata nel 2011 dalla sua sorella minore, Yingluck Shinawatra, leader del Pheu Thai Party (PTP).

La successione al trono

Sinora rimasta sullo sfondo degli avvenimenti politici, la questione della successione dinastica è centrale per una corretta lettura della crisi thailandese.

Lungi dall’esercitare un ruolo di natura esclusivamente cerimoniale, la figura del sovrano riveste un ruolo tuttora preminente sulla scena politica nazionale. Salito al trono nel 1946, Bhumipol Adulyadej rappresenta il vertice (oltre che il garante) di un sistema di potere che ha governato il Paese per molti decenni. Sebbene si tratti di un monarca costituzionale, egli è più volte intervenuto direttamente sulla scena politica thailandese, ritagliandosi un ruolo di assoluta importanza, centrale nel preservare l’unità stessa della Thailandia.
A partire dal 2004, tuttavia, a causa di gravi problemi di salute, Bhumipol ha dovuto spesso farsi ricoverare per mal di schiena, morbo di Parkinson e depressione, trovandosi costretto a disertare eventi ufficiali che normalmente presiedeva.

La sua età avanzata e le precarie condizioni di salute hanno, dunque, innescato un dibattito sulla sua successione; molti dei suoi sudditi temono che l’erede al trono, il principe Vajiralongkorn, non abbia il carisma e la statura politica del padre. La vita privata di Vajiralongkorn continua a rappresentare un tema controverso, anche se non viene discussa pubblicamente. All’indomani del colpo di Stato del 22 maggio, ha suscitato scalpore la notizia secondo la quale, il principe avesse lasciato la Thailandia, per “rifugiarsi” in un albergo a cinque stelle dell’Hampshire, insieme a sua moglie e a circa altre trenta persone. A destare forte preoccupazione, tuttavia, non è tanto la sua vita privata, quanto la sua presunta vicinanza a Thaksin Shinawatra, argomento di cui non si discute pubblicamente, considerate le rigide regole e le forti pene previste dal codice per la lesa maestà. Alcuni mesi prima dell’elezione a capo del governo di Yingluck Shinawatra, agenti dell’intelligence tedesca avevano, ad esempio, segnalato un incontro, avvenuto in Baviera, tra il principe ereditario e Thaksin. Già nel 2005, un dispaccio dell’ambasciatore americano a Bangkok aveva evidenziato come il capo del clan degli Shinawatra stesse da tempo “investendo” su Vajiralongkorn. Un diplomatico di Singapore ha riferito che Thaksin avrebbe più volte pagato i debiti di gioco del principe ereditario.

Il timore dei tradizionali ambienti di potere thailandesi è dunque quello che Thaksin, sfruttando la propria vicinanza al principe ereditario, porti a definitivo compimento il processo di riconfigurazione degli equilibri di potere avviato nel 2001.

Il colpo di Stato del 22 maggio, dunque, rappresenterebbe l’ennesimo tentativo di frenare tali dinamiche, eliminando, o almeno riducendo sensibilmente, l’influenza della famiglia Shinawatra sulla scena politica nazionale. Il rischio, tuttavia, è quello che, come avvenuto già nel 2006, i calcoli dei militari si rivelino errati e finiscano, invece, per approfondire ulteriormente le divisioni che attraversano il Paese.

Le prospettive future

Con la presa del potere da parte del Consiglio Nazionale per il Mantenimento della Pace e dell’Ordine (CNMPO), organismo presieduto dal comandante dell’Esercito, il generale Prayuth Chan-ocha, si è aperta una fase di grave incertezza. Nonostante le pressioni internazionali, infatti, non è stata sinora fissata alcuna data per nuove elezioni, né stabilita una tabella di marcia per l’adozione delle riforme. Stati Uniti e Unione Europea hanno già minacciato sanzioni, ma è possibile che, almeno in una prima fase, si tratti di misure perlopiù simboliche. Washington potrebbe, ad esempio, interrompere la cooperazione nel settore militare, congelando i finanziamenti alle forze armate thailandesi (il cui ammontare è, tuttavia, di circa 6 milioni di dollari l’anno) e annullando le esercitazioni congiunte.

Sebbene si siano sinora registrate solo limitate proteste contro il colpo di Stato militare, non è escluso che si assista, presto o tardi, a un rapido deterioramento del quadro di sicurezza. All’indomani della presa del potere da parte della giunta, infatti, le cosiddette “camice rosse” hanno minacciato “rappresaglie” contro i militari. Potrebbe dunque bastare un episodio isolato per far scoppiare la rabbia e la frustrazione di una parte consistente, probabilmente maggioritaria della popolazione, che ha visto ancora una volta ignorata la propria volontà politica, con il sovvertimento dell’ennesimo governo democraticamente eletto. I militari stanno portando avanti un’azione piuttosto capillare di repressione di ogni forma di dissidenza, ma ciò potrebbe non bastare a tenere la situazione sotto controllo. La Thailandia, dunque, appare oggi come una polveriera pronta a prender fuoco in qualsiasi momento. Solo un processo riformatore rapido e inclusivo potrebbe impedire che lo scontro politico si concluda ancora una volta in un bagno di sangue, ma, al momento, nessuno degli attori in campo appare pronto a fare un passo indietro e imboccare la via del compromesso. Una strada che, col passare del tempo, appare sempre più stretta e tortuosa.


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