The act of killing
Creato il 25 luglio 2015 da Veripaccheri
The act of killing
di, J.Oppenheimer
Dan/Nor/GB 2012
genere, documentario
durata,115'
Per
quanto fosse uomo brillante, nemmeno William Pitt, a margine del suo
intervento alla Camera dei Comuni del novembre 1783, durante il quale,
tra l'altro, affermo' che "la necessita' e' il pretesto per ogni
violazione della libertà umana. E' l'argomento dei tiranni e il credo
degli schiavi", avrebbe potuto ipotizzare l'eventualità che il domani
delle società organizzate, moderne e democratiche, avrebbe riservato ai propri contemporanei lo spettacolo di
un regime - della sua ottusità valetudinaria - nel caso quello
Indonesiano (aduso a parlare di se' nei termini di Repubblica
Democratica Presidenziale), capace non tanto e non solo di utilizzare lo
scivoloso strumento della suddetta necessita' per sbarazzarsi
nell'arco di tempo di circa un anno, a cavallo tra il 1965 e il 1966,
della spropositata cifra (ovviamente approssimativa) di un milione di
oppositori (definiti tali o, genericamente, comunisti) avvalendosi dei servigi sia
di formazioni paramilitari (a tutt'oggi una di queste, la Pancasila
Youth, conta oltre tre milioni di affiliati) che di criminali comuni
("Eravamo gangsters. Non avevamo lavori veri. Avremmo fatto qualunque
cosa per soldi"), quanto di compartimentarlo nelle menti e negli animi
di una popolazione attraverso la sistematica e capillare trasfusione di
metodi e meccanismi ideologico-mediatico-propagandistici i quali,
in nome e per conto di Suharto (ai tempi succeduto di forza a Sukarno in
ragione di un presunto imminente "colpo di stato comunista"), a tutela
di radicati interessi economici e strategici anche occidentali, facendo
artatamente leva su istanze religiose radicali, hanno nei decenni
partorito l'osceno di una visione dei carnefici nella stessa misura
idealizzata ed eroica, meritevole di essere tramandata nelle scuole ad
edificazione delle generazioni, come ribadito, nei mezzi d'informazione
(!), a chiusura del cerchio di una retorica patria unanime e condivisa
ben oltre il grottesco, un'etica fittizia che s'arrabatta e riesce -
all'interno del suo perimetro sigillato - a sostituire il ravvedimento e
la responsabilità con una sinistra agiografia.
Il
lavoro - e la sfida di Oppenheimer, sostenuta dalla produzione di
W.Herzog e E.Morris e rilanciata a due anni distanza con l'altrettanto
sconcertante "The look of silence", Premio Speciale della Giuria a
Venezia 2014 - si organizza e si centra attorno al tutt'altro che a
portata di mano obiettivo dell'equilibrio, dell'equidistanza, in modo
che tale atteggiamento non nuoccia alla stringente concretezza dei fatti
da narrare. Lo stesso Oppenheimer ha osservato di avere sempre tenuto
presente due riferimenti: la valenza morale dei crimini commessi e
l'importanza di comprendere che la mera riduzione dei responsabili a mostri sarebbe
stata solo una facile rassicurazione: in altre parole, che il confronto
da instaurare sarebbe sempre dovuto avvenire nell'ambito di un
comportamento tenuto da esseri umani, per quanto colpevoli. Secondo
siffatto presupposto, seguendo le rivelazioni di uno degli esecutori
materiali - tal Anwar Congo ("Per le stragi mi mettevo i jeans. Per le
stragi i pantaloni dovevano essere spessi") - nonché le sue
peregrinazioni simili alle stazioni di una sorta di viaggio della
memoria nell'orrore alla ricerca e al coinvolgimento nella rimembranza
di alcuni sodali degli avvenimenti del '65, il regista allestisce, senza
forzare troppo la mano e benché lo schema tenda a ripetersi, un
reticolo di rivelazioni entro cui pian piano finiscono per assommarsi
confessioni, palesi falsità, divagazioni contraddittorie, esaltazioni
nostalgiche per una storica missione, attimi di puro sconcerto,
tendenza a normalizzare l'accaduto a mo' di una pervicace volontà
autoassolutoria ("Abbiamo troppa democrazia. E' il caos. Si stava meglio
sotto la dittatura"; e "Il segreto e' trovare un modo per non sentirsi
in colpa. Trovare la scusa giusta"), che confluisce in una rivisitazione
del passato rivissuta dai protagonisti attraverso l'allestimento di set
cinematografici sui quali, svariando tra i generi - dal western al
musical; dal dramma alla commedia; dal thriller al poliziesco - (di cui
tutti si dicono grandi estimatori, in specie nella declinazione a stelle
e strisce) vengono riesumati scampoli di una storia per molti aspetti
ancora sconosciuta, tanto e' stata divelta dalle coscienze a colpi di
demagogia e retorica populista, quella e questa, a ben vedere,
saldamente ancorate alla corruzione, ovvero al potere onnicomprensivo
del denaro.
Il
procedimento sviluppato da Oppenheimer, sottilmente capzioso ma
efficace, alla lunga produce - esito non da poco - il risultato
straniante e scomodo di far emergere dall'atto di uccidere quella sua inquietante componente ritualistica, quel sospetto mai sopito di messinscena del gesto inumano per eccellenza che, nella moltiplicazione delle varianti possibili, dei codici, dei generi,
approda, da un lato e in maniera più immediata, alla trasfigurazione,
ossia al reperimento di un mezzo per tentare di disinnescare il
contenuto tragico delle azioni dei singoli - le loro colpe, l'illusione
posticcia di una contestualizzazione tanto opportunista quanto insensata
- per il tramite della magniloquenza teatrale della sua apparenza; dall'altro, riafferma, più in filigrana, la forza del Cinema d'inchiodare/esplicitare/rafforzare,
a volte, la realtà ricreandola, secondo uno sforzo che si muove nella
direzione opposta a quella dell'intenzione prevaricatrice (in senso
lato, il Potere) che tende ad avvalersene per negarla.
Anche
per questa ragione risuona ancora e con rinnovata urgenza il monito
raccolto e reiterato da una figura come Carlo Rosselli, poco prima del
suo assassinio nel giugno del '37: "Le dittature passano, i popoli
restano", a sottolineare che lucidità e responsabilità, il loro continuo
esercizio, concorrono di certo più del benessere materiale a
scongiurare che un popolo rimanga vittima di se stesso.
TFK
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