The Bends: il 1995 è l’anno dei Radiohead e del loro secondo album.
1995. Il mondo della musica è una miscela di tendenze composite e a volte opposte. Gli Alice in Chains pubblicano il loro self-titled e al grunge mutilato dalla morte di Cobain si affianca These Days dei Bon Jovi. In Inghilterra monta l’ondata britpop dei Blur e degli Oasis, che si concretizza nella lotta per la top chart tra l’album dei primi, The Great Escape, e quello dei secondi, What’s the story morning glory?, in una rivalità fomentata dai media come una nuova versione della diatriba Beatles/Rolling Stones. Al contempo c’è chi si appresta ad intraprendere vie più sperimentali: basti pensare all’islandese Björk, con il suo Post, e ai Radiohead.
Sono forse questi ultimi a sferrare nel 1995 il colpo più potente, candidandosi inconsapevolmente a diventare uno dei più autorevoli punti di riferimento della scena musicale del successivi vent’anni. Probabilmente nessuno ha saputo innovare ed innovarsi ad ogni nuova uscita come il quintetto inglese, che vent’anni fa pubblicava il secondo album, The Bends. Il lavoro segna un passo in avanti verso una sperimentazione che con il tempo si farà sempre più rarefatta e complessa e che esploderà nella sua magnificenza con l’uscita del capolavoro Ok Computer (1997).
The Bends: l’eredità di Creep
Il periodo della gestazione di The Bends non è facile. Il successo planetario e sconvolgente del singolo Creep (tratto dall’album Pablo Honey del 1993) ha toccato nel profondo i membri della band, in particolare il cantante Thom Yorke, che si ritrova improvvisamente a essere preso come modello da una generazione intera di ragazzi che si riconoscono nelle parole di quel testo malinconico, disperato, personale.
La fama dovuta al brano dà ai Radiohead l’impressione di essere sul punto di entrare nel novero degli artisti che si limitano a sfornare un singolo di grande successo per poi scomparire per sempre. La tensione all’interno della band cresce, al punto che i cinque smettono di trovarsi per provare. Mesi dopo, Jonny Greenwood stesso ritrarrà la situazione come una costante, silenziosa, tesa freddezza. Peggio delle liti, peggio di qualsiasi conflitto.
Ormai Yorke, Selway, O’Brien e i due Greenwood odiano Creep, tanto da chiamarla poco amichevolmente “Crap“. Odiano doverla suonare costantemente, odiano vedere che il pubblico accorre ai loro concerti solo per sentire quel pezzo, ignorando le altre canzoni. La strada da percorrere è chiara: distaccarsi il più possibile da Creep. Ma, così facendo, i Radiohead si perdono. Non sanno che direzione prendere, si sentono smarriti sia musicalmente che personalmente.
The Bends: le registrazioni
Le registrazioni di The Bends (presso lo studio RAK, a nord di Londra) iniziano in questo modo, con l’ossessione di allontanarsi dal grande successo e la tipica ansia da sophomore album. Nonostante il sostegno del nuovo produttore John Leckie, la band viene risucchiata da una spirale di manie di perfezione. Si decide di affittare un numero esorbitante di strumenti e attrezzature, alla ricerca del “suono perfetto”. Peccato che il suono perfetto ci fosse già.
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Le registrazioni si trascinano avanti per due mesi, due mesi colmi di problemi, crisi isteriche, liti e testardaggine. Terminato questo periodo, i Radiohead sono costretti a lasciare a metà i lavori per partire per un tour già programmato. Il cambio di prospettiva e lo stacco deciso, però, sembrano fare bene alla band. Una volta tornati in studio, questa volta al Manor, i cinque completano in un batter d’occhio quelle stesse canzoni che appena qualche mese prima avevano provocato problemi su problemi. Le registrazioni si concludono ai leggendari studi di Abbey Road, in un’atmosfera molto più rilassata, carica e speranzosa rispetto a quella iniziale.
Il titolo dell’album, The Bends, è un termine utilizzato per indicare il malessere di cui soffrono i sommozzatori quando tornano in superficie troppo velocemente. In un certo senso è ciò che è successo alla band: ritrovarsi improvvisamente in alto, troppo in alto, così tanto da star male.
The Bends: le reazioni del pubblico e della critica
Quando il 13 marzo l’album esce, il pubblico e la critica impazziscono. La Capitol, casa discografica che si occupa della distribuzione americana della band, è l’unica a non essere molto felice, a causa dell’assenza di un vero e proprio singolo trascinante, come Creep era stato per Pablo Honey. Questa mancanza, però, non è da considerare in modo negativo, anzi: in The Bends a spiccare sono tutti i brani, ognuno raffinato a modo suo, non un unico cavallo di punta incaricato di trainare l’album verso le prime posizioni della classifica. Alla fine il brano prescelto dalla Capitol sarà Fake Plastic Trees. Solo la strenua opposizione della band permetterà la diffusione della canzone nella sua versione originale e non remixata ad arte per renderla più radio friendly.
Come detto, The Bends è il primo passo verso la sperimentazione che verrà estremizzata e portata in dimensioni sempre nuove negli anni successivi. Il legame con Pablo Honey c’è ed è ben percepibile, eppure sin dal primo brano, Planet Telex (la cui traccia vocale è stata incisa da Yorke ubriaco ed accasciato in un angolo dello studio) si capisce che questa volta c’è qualcosa di più. A confermarlo ci pensano le esplosioni di Just e My Iron Lung e la malinconia di High & Dry e Fake Plastic Trees, che raggiunge nuove vette di ipersensibilità.
Sarebbe impossibile concepire i successivi album della band come slegati da quel secondo punto di partenza che The Bends rappresenta. Allo stesso modo, è possibile trovare innumerevoli collegamenti tra la musica degli ultimi anni e la creatività dei Radiohead. La band inglese è sempre riuscita ad essere un passo più avanti degli altri: nella sperimentazione, nei nuovi modelli di diffusione, in una coerenza di fondo che ne ha fatto una leggenda contemporanea.
Ancora oggi, a vent’anni di distanza, riascoltare The Bends fa capire come mai Michael Stripe abbia affermato “i Radiohead sono così bravi che mi fanno paura”.