Daniel Alarcón, Charles Baxter, Junot Díaz, Gish Jen, Sheila Kohler, David Means, Alice Munro, Suzanne Rivecca, George Saunders e molti altri: è particolarmente ricca di voci non solo emergenti ma anche internazionalmente riconosciute questa edizione di “The Best American Short Stories 2013”, e l’immagine che alla fine resta, nella mente del lettore, è quella di una raccolta la cui varietà tematica, stilistica e strutturale non ha molti termini di paragone nel mondo.
Quest’anno, al contrario di quando fatto per le edizioni passate, ho deciso di sostituire la mia usuale recensione (trovate alcuni dei miei articoli precedenti qui e qui) con quello che Elizabeth Strout, che è la guest editor del 2013, scrive nell’Introduzione.
È raro che al lettore italiano sia data la possibilità di leggere la versione originale dell’Introduzione scritta per l’edizione americana di questa raccolta, ragione per cui sono convinto che le parole della Strout possano essere di grande interesse per capire su quali principi si costruisca oggi il valore di un’opera di short fiction in America.
“The Best American Short Stories” è un’antologia di storie brevi che viene pubblicata dal 1915 da Houghton Mifflin Harcourt – e di cui dal 2007 è editor fisso Heidi Pitlor – e che negli ultimi (quasi) cent’anni ha fatto conoscere al grande pubblico scrittori rimasti nella storia della letteratura non solo americana. Elizabeth Strout, invece, è per chi non lo sapesse una scrittrice statunitense che tra i vari riconoscimenti ha ottenuto il Premio Pulitzer per la narrativa con “Olive Kitterige” (2009) romanzo col quale ha anche vinto il Premio Bancarella in Italia (“Olive Kitterige”, Fazi Editore, 2010, traduzione di Silvia Castoldi).
Ecco qui di seguito l’Introduzione della Strout (la traduzione in questo caso è mia) con annessa l’implicita assicurazione (anche questa del sottoscritto) che le storie brevi in essa contenute sono tutte meritevoli della vostra attenzione.
Buona lettura.
C’era un tempo in cui il telefono era una cosa appesa a un muro o posata su un tavolo, e quando squillava non avevi idea di chi stesse chiamando. “Pronto?” Ovviamente ognuno aveva una sua maniera per dirlo: quelli che come mia nonna si aspettavano sempre un disastro lo dicevano con quieto timore. Quelli che invece volevano sembrare amichevoli (mia madre) con una sorta di benevola allegria: “pronti!” O ancora, un adolescente un po’ insicuro avrebbe borbottato “pro-nto?” Era più una domanda che un benvenuto. Prima dell’avvento delle segreterie telefoniche e del riconoscimento di chiamata, quella parola significava in realtà chi è? Per quale ragione mi stai chiamando? Cosa mi devi dire? Difficilmente ci si poteva trovare più in sintonia col suono di una voce come nel momento che precedeva la risposta. Chiunque avesse chiamato lo aveva fatto per una ragione: per comunicare una buona o una cattiva notizia, per riferire qualcosa che aveva udito mentre faceva la spesa, per divulgare o per mettere a tacere un pettegolezzo, o per esprimere preoccupazione sul mondo. Si tendeva a prevedere il tono della voce almeno quanto le parole.
Un lettore è nella stessa condizione di chi dice “pronto”. Con esitazione, con entusiasmo o in alcuni casi addirittura con trepidazione, il lettore si avvicina a un testo con l’implicita domanda di cos’hai da dirmi? E lo scrittore risponde questo. Devo dirti questo. E voglio che ascolti la mia voce e il suo tono, perché tono e voce ti diranno quello che voglio dirti. Non a caso, nella prima storia di questa raccolta, il narratore, un attore senza lavoro, dice “devo essere chiaro fin dal principio riguardo a una cosa: non sono le parole a contare, ma la maniera in cui vengono dette”.
È ovvio che scegliamo se ascoltare o meno una voce in base ai nostri gusti personali. E oggigiorno basta dare un’occhiata allo schermo del telefonino per decidere: no, adesso non mi va di parlarci, comincerà a raccontarmi di sé in ogni suo più piccolo dettaglio… e chi se ne frega di cosa ha detto quel cretino di suo marito ieri sera? e così facendo voltiamo le spalle a una voce solipsistica e strabordante. O invece pensiamo sì!, è lui!, evviva!, ho proprio voglia di ascoltarlo e allora “pronto!!!” diciamo con trepidazione, perché quest’uomo sa sorprenderci, quest’uomo sa farci sentire quanto quello che dice sia intimo e importante. La sua voce ci richiama. Da lui ci sentiamo accolti.
Se quindi vi domandate perché ho scelto le storie che ho scelto, la risposta ha molto a che vedere con la voce, e con quel suono che, quando funziona, ha autorevolezza, che poi è probabilmente la dimensione più importante che una voce possa avere: speriamo con tutti noi stessi che lo scrittore sappia quello che sta facendo. E con tutti noi stessi speriamo che questo senso di controllo duri per l’intera lettura. Cerchiamo questa cosa come cerchiamo autorevolezza e competenza in qualunque altro settore. Non vogliamo ritrovarci a bocca aperta sul lettino di un dentista mentre gli sentiamo dire “oh.. cavolo”. E non vogliamo che un idraulico fissi il tubo che ci ha appena allagato il pavimento e balbetti “uhm, non saprei…”. Allo stesso modo l’ultima cosa che vogliamo è uno scrittore la cui voce sia incerta o diventi fasulla. Ma non credo che i lettori pensino a questa cosa in maniera analitica, credo piuttosto che sia una sensazione che si prova nei confronti dello scrittore e che diventa sempre più forte mano a mano che procediamo nella lettura: voglio restare in tua compagnia, voglio andare avanti, mi piace quello che dici e la maniera in cui lo fai, mi piace il suono della tua voce.
E come è giusto che sia, questa voce dotata d’autorevolezza cambierà da autore ad autore; gli scrittori sono persone differenti, e ognuno ha la sua personale maniera di mettere insieme le parole a seconda della cultura, del luogo e del tempo in cui il loro stile si è formato. L’autorevolezza che Alice Munro sa portare sulla pagina ha un suono differente da quello di George Saunders, che poi è a sua volta completamente diverso da quello di Junot Díaz.
Mi ricordo, un’infinità di anni addietro, d’essermi ritrovata a cena fuori in una trattoria del Maine insieme a mia madre, a mia figlia più piccola e a suo padre (questi ultimi due cresciuti vicino a New York). Sulle panche di fianco alle nostre c’erano due donne di mezza età – due donne del posto dai capelli corti e con indosso delle camicette di flanella – che stavano chiacchierando tra di loro in quel tono piatto e inespressivo a me tanto familiare (sono cresciuta nel nord del New England, in mezzo a voci come quelle). Una delle due donne stava dicendo all’altra, con fare stringato, come se stesse parlando di un rubinetto che perdeva, “… e così ha ucciso suo marito eh?” E l’altra rispondeva “già, e si è sparata un mese dopo”. E a seguire un cenno d’assenso, come a confermarsi a vicenda che non c’era altro d’aggiungere.
Ciò che secondo me c’è di rilevante in queste voci è la percezione del luogo e della cultura. Quello che infatti sorprese mia figlia e suo padre – ovvero la completa assenza d’espressione – non aveva per me nulla di sorprendente: una notizia d’una certa importanza veniva scambiata con pochissime parole. In termini di tecnica narrativa, si lasciava molto spazio all’interpretazione dell’ascoltatore. Se la stessa storia fosse stata raccontata in qualche altro luogo, da membri di una comunità più incline all’esternazione, avremmo sentito ogni sorta di dettaglio unito a toni accesi e incalzanti. Un cambio di voce, e la stessa storia sarebbe stata differente.
Ecco come il suono del racconto emerge con naturalezza e in forma quasi instintiva insieme a ciò che viene raccontato. Prestate orecchio ad esempio alla voce quasi priva di respiro dell’io-narrante in “The Chair”, di David Means, mentre si dispiega l’ansia di un genitore nei confronti del giovane figlio. O osservate come il racconto “A voice in the Night” di Steven Millhauser altro non sia che quella combinazione di linguaggio sconnesso e intatte memorie che emerge nel momento in cui una persona si trova sdraiata e in solitudine nelle ore più buie, in attesa. Nel racconto “The Provincials” Daniel Alarcón comincia a scrivere partendo dal punto di vista di un attore per poi cambiare improvvisamente il linguaggio e presentare le parole pronunciate dai personaggi sotto forma di copione: in quel momento della storia chi narra ha l’impressione di ritrovarsi nella scena di una piece teatrale, e Alarcón in effetti scrive il tutto come se fosse tale, cosa che intensifica il momento in maniera, letteralmente, drammatica.
Non ho scelto le storie basandomi in primis sul loro tema. Questo però non significa che non vi abbia prestato attenzione. Piuttosto, che essendo il contenuto parte integrante della voce, ogni volta che questa non funzionava il tema stesso diveniva irrilevante. Ciò nonostante è vero che quando finiamo di leggere una storia è quasi sempre il tema quello che ricordiamo (o che crediamo di ricordare) ed è questo a rendere la lettura di una buona storia un’esperienza elettrizzante: ci commuoviamo davanti a un’emozione o a un’immagine che continua a vivere anche fuori dalle pagine, non riusciamo a toglierci dalla mente una certa storia. Ma essa ci è stata trasmessa attraverso una voce. Ed è al suono di quella voce che alla fine crediamo. È il suono ad averci comunicato quella storia.
I temi sviluppati in questa raccolta sono comunque tutti incredibilmente belli, vari e pieni di sorprese, perché i bravi scrittori sanno sempre come sorprendere: alle volte si tratta di una cosa minuscola, magari di un’epifania silenziosa, come quella che sopraggiunge alla fine di “Malaria” di Michael Byers, o magari un’improvvisa bizzarria alla quale però crediamo con tutto noi stessi, come nella storia “Bravery”, di Charles Baxter, dove a Praga una donna fuori di sé racconta a una giovane sposa il suo futuro. Questo tipo di sorprese soddisfano il lettore (“questa proprio non me l’aspettavo!”) ma funzionano solo quando il racconto mantiene per tutta la durata una sua coerenza interna, ovvero quell’autorevolezza di cui parlavamo all’inizio. Questo significa che lo scrittore ha tenuto fede all’implicita promessa fatta al lettore: vai avanti e fidati di me. Qualunque sorpresa ti farò non sarà mai gratuita, non ti mentirò, non mirerò a ostentare la mia bravura. Ti racconterò qualcosa che sarai felice di ascoltare, e anche se si tratterà di qualcosa di doloroso o sconcertante, potrai ancora credere in me. E i lettori, ne sono convinta, vogliono credere. O comunque, dentro di loro, questo desiderio, questa attitudine quasi infantile, è predominante.
Certo non è semplice parlare di onestà nello scrivere. Sono però convinta che si tratti di qualcosa che una parte di noi riconosce sempre quando se la trova davanti e che di conseguenza, nel momento in cui un lettore perde interesse in una storia e l’abbandona, spesso la ragione vada ricercata nel fatto che la voce dell’autore abbia perso in autorevolezza – e scrivere con onestà ne costituisce una buona parte – e in una qualche fondamentale maniera il lettore stesso abbia smesso di credere. Quella che sembra una perdita d’interesse è in realtà una perdita di fiducia, o, comunque, di condivisa intimità.
“The World to Come” di Jim Shepard è ad esempio di un’initmità così profonda da farci sentire come se avessimo appena violato la purezza di una donna di più di un secolo fa, la cui voce ci rivela l’abissale solitudine della vita in una fattoria nel nord dello stato di New York: e non importa se oggi non viviamo più in quella maniera o se a quei tempi non c’eravamo, come non importa se oggi nessuno venga costretto a indossare lettere scarlatte. La storia ci trascina comunque via, in un luogo e in un’epoca in cui le donne vivevano nell’isolamento delle loro sconfitte mentre i mariti lavoravano una terra dura e spietata.
L’isolamento, come il narrare storie, può presentarsi in varie forme. In “Referential”, di Lorrie Moore, che è una storia ambientata nella contemporaneità, una madre vive una vita di privazioni e ristrettezze a causa della sua scelta di restare vicina al figlio malato. La storia non presenta alcuna nota di lamentela o di giudizio: la vita è quello che è, le persone sopportano quello che possono sopportare e cercano di tenersi a distanza da ciò che non riescono a superare. Nelle storie migliori questo senso viene sempre fuori: le cose stanno come stanno. Chi scrive ce ne porta notizie dal proprio angolo d’esperienza e immaginazione.
Quali sono allora le notizie contenute in queste pagine? La nostra eccessiva preoccupazione verso lo status, anziani che hanno bisogno di assistenza, gli incontri agli alcolisti anonimi, la perdita del lavoro e la crisi dei mutui, il divorzio e lo sconvolgimento che rappresenta per i figli, l’entrata dei computer e dei cellulari nelle scuole, la distanza tra le generazioni e quella tra le città e chi è rimasto troppo indietro. Detti così – nient’altro che temi ridotti all’osso – la ricchezza di voci e d’esperienze va persa, il che significa che è l’esperienza della lettura di una storia a perdersi. “Chapter Two”, di Antonya Nelson, ci descrive gli incontri agli alcolisti anonimi e la pluralità di maniere in cui una storia vi può essere raccontata, insieme alla bevuta che si fa subito dopo o alla vita che si è vissuta fino a un attimo prima: la donna nuda che compare sulla porta è sorprendentemente credibile e la prima persona narrante sa come farsi di lato per lasciare che sia quel personaggio a fare l’inchino finale. Nel racconto “The Semplica-Girl Diaries”, la voce inimitabile di George Saunders ci mostra in maniera pungente e corrosiva fino a dove siamo disposti a spingerci per rendere felici i nostri figli, anche se questo significa comprare delle giovani immigrate per decorare il prato d’ingresso della nostra casa. Junot Díaz ci lascia con l’immagine di Miss Lora nel suo vestito rosso, un’immagine così reale che mi aspetto di ritrovarmela davanti ogni volta che cammino sul marciapiede. “The Tunnel, or The News from Spain”, di Joan Wickersham, mette in risalto l’ironia e la confusione che sorgono allorché una madre vecchia e malata non si decide semplicemente a morire.
Probabilmente è vero che la voce dell’autore assume un’importanza maggiore in una storia breve piuttosto che in una di una certa lunghezza. Si tratta di un’esperienza molto più rapida, dalla quale il lettore deve essere coinvolto fin da subito, e che lascia meno spazio per passaggi di scrittura più debole o piena di dettagli gratuiti. Da dove provengo io (ovvero il nord del New England) parlare molto era considerato sconveniente e il rispetto per una persona poteva diminuire considerevolmente nel caso in cui questa si mostrasse troppo disponibile alla chiacchiera. Ricordo, ad esempio, come in famiglia tutti concordassero nel dire che: “zio Norris parla solo per sentire il suono della sua voce” e di conseguenza nessuno lo ascoltasse (io stessa non riesco a ricordarmi nulla di quello che diceva, anche se ricordo il sottile ronzio della sua voce). Durante la mia infanzia coloro che detenevano la capacità di parlare la sapevano gestire con buon tempismo ed essenzialità di dettagli, proprio come, per le due donne nella trattoria del Maine, dire in che maniera la donna avesse ucciso il marito, o perché o dove si fosse suicidata, o se avesse lasciato dei figli, non era una cosa necessaria. Lo scrittore sceglie i dettagli in base alla voce narrante più adatta a raccontare la storia. È in questa maniera che sa quello che debba o non debba essere detto.
Nella storia “Encounters with Strange Animals”, di Bret Anthony Johnston, i dettagli sono essenziali e incredibilmente precisi. In poche pagine l’autore ci comunica il dilemma di un padre che perde la sua illusione di controllo. In “Nemecia”, di Kirstin Valdez Quade, chi narra è una donna ispanica che ripensa alla sua vita da ragazzina, e la confusione di quell’età è resa attraverso pochi e significativi dettagli scelti con grande attenzione e che sanno portare il lettore al centro dell’esperienza narrata.
Come voce e tema non sono entità separate, così anche la forma non sta mai per conto proprio. Al pari delle prime due infatti essa è sempre e strettamente legata a un luogo e a un tempo e di conseguenza deve cambiare, come è giusto e naturale che sia, cosa che vale soprattutto ai giorni d’oggi. Di fatto, per molte decadi, le nostre storie brevi sono state caratterizzate da un singolo avvenimento, da una voce narrante e da un punto di vista. Oggi le cose non stanno più così. Mentre la nostra visione diviene mano a mano più globale, il nostro modo di raccontare si fa sempre più variegato, e sempre più numerose sono le storie brevi che contengono più punti di vista, o che cambiano ambientazioni, o che contengono al proprio interno tanto materiale quanto siamo normalmente abituati a ritrovarne in un romanzo breve.
Le storie di oggi sono scritte nel bel mezzo di un enorme sconvolgimento nella nostra maniera di comunicare, trasferire o ricevere informazioni. Pensiamoci bene: la rivoluzione agricola ha impiegato tremila anni a realizzarsi, quella industriale ce ne ha messi trecento. Si trattava di sviluppi e di cambiamenti molto lenti, in rapporto a quelli che stiamo vivendo noi oggi. Gli abitanti di oggi sono passati attraverso più trasformazioni e a una velocità di gran lunga maggiore di quanto sia mai avvenuto in precedenza. Che insegnamento dovremmo trarne? Credo che nessuno di noi lo sappia. Ma siamo consapevoli che il mondo esterno non è più un “estraneo” come una volta. Luoghi distantissimi compaiono tra le nostre dita mentre teniamo in mano i cellulari, ci scambiamo notizie sulle crisi internazionali in pochi secondi, e in ogni parte del mondo si svolgono via skype conversazioni tra familiari, lezioni e conferenze. La percezione che l’America ha delle cose si sta allargando e così stanno facendo le nostre storie: eccole a Boston, in Sud Africa, in Peru e in Canada. Ma ancor più che la varietà delle ambientazioni, è la gamma delle voci a rappresentare il maggior indicatore di cambiamento.
Tuttavia molte storie di questa raccolta guardano indietro. Per un personaggio d’inizio ventesimo secolo (in “Nemecia”) spostarsi dal Nuovo Messico in California viene percepito come andare a vivere oggi in un continente diverso dal proprio. La storia “Train” di Alice Munro comincia col ritorno di un giovane dalla Seconda Guerra Mondiale per poi descriverci, ad anni di distanza, il suo passaggio dalla vita di campagna a quella della città di Toronto, e questa transizione è resa con una tale chiarezza che anche noi lettori sentiamo l’impatto devastante con la “modernità” di quel cambiamento. Ma è “The Wilderness” di Elizabeth Tallent che ci conduce nel mondo di oggi, con macchine – o dispositivi d’informazione – che occupano la maggior parte del nostro tempo e che, malgrado sembrino minacciare d’aumentare il nostro senso d’isolamento, offrono anche la speranza – vera o falsa – di connetterci: la storia sussurra per tutto il tempo e in maniera quasi straziante la parola io, come se fosse il sé quello che rischiamo di perdere.
Ma è il sé ciò di cui siamo sempre alla ricerca o da cui cerchiamo di fuggire, e la fiction ci fornisce di entrambe queste possibilità: sono legati gli uni agli altri questi voli da e verso quello che siamo: leggiamo per il bisogno di vedere cosa gli altri stanno pensando, sentendo, vedendo: per vedere come stanno vivendo le loro frustrazioni, i loro momenti di felicità e le loro dipendenze. Vediamo quello che possiamo a nostra volta imparare. In quale maniera le persone affrontano il matrimonio, le perdite, la malattia, il sesso o l’essere genitori? Come fanno a fare quello che fanno? Spesso le emozioni di cui è fatta la nostra vita interiore sono troppo grandi per poter essere capite. Il caos e la mancanza di un senso si agitano dentro di noi. Entrare nella forma di una storia significa riprenderne il controllo, o al contrario perderlo, all’interno di uno spazio ben definito.
In un mondo dove le telefonate divengono sempre meno lunghe e frequenti, e dove un tweet fa sembrare un po’ antiquate le email, abbiamo più informazione ma meno voci. Questi cambiamenti, immagino, ci fanno desiderare il suono di una voce vera sempre di più. E nondimeno vogliamo ancora ricevere le notizie dal fronte, non solo di guerra o dell’economia o del proprio ombelico: vogliamo le notizie tenute secrete, quelle cose indicibili che affiorano nelle crepe più oscure della mente durante una notte insonne. Vogliamo sapere cosa vuol dire essere un’altra persona, credo, perché in una qualche maniera questo ci aiuta a trovare anche un nostro posto nel mondo. Cosa saremmo senza curiosità? Chi nel mondo, e dove nel mondo, e cosa nel mondo potremmo essere? Così prestiamo attenzione a quella richiesta interna, alla pressione insita in quella domanda: Pronto? Per favore, sì, dimmi.
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