The Butler: ennesimo Blockbuster senza anima

Creato il 23 dicembre 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Matteo Vergani23 dicembre 2013

Tre sono le regole di un perfetto servitore: fa come se non ci fossi, capisci sempre cosa vogliono gli altri prima che te lo chiedano, fai nascere un sorriso sulle labbra dei tuoi padroni. Tre regole d’oro che fanno di un uomo un vero ed autentico maggiordomo. Ma cosa succede se coloro a cui bisogna prestare servizio sono nientemeno che gli inquilini della Casa Bianca? Cecil Ganes (Forest Whitaker) è un giovane schiavo di colore nel sud degli Stati Uniti di fine anni ’20 impiegato in una piantagione di cotone assieme alla famiglia. Dopo i ripetuti stupri della madre e l’uccisione del padre per mano del perfido proprietario della tenuta, Cecil viene preso sotto l’ala protettrice dell’anziana padrona di casa, la quale, seppur con riluttanza, lo inizierà alla nobile arte della servitù, facendolo diventare un negro di casa. Divenuto ormai adolescente, il ragazzo si trasferisce al nord, dove passa la prima giovinezza come cameriere in un lussuoso hotel. Qui le sue straordinarie doti verranno presto notate da funzionari presidenziali, che lo porteranno nientemeno che a prestare servizio al 1600 di Pennsylvania Avenue, la sede della Casa Bianca. Cecil, passando dall’amministrazione Eisenhower alla tragedia di J.F.K., dalle riforme di Lyndon Johnson allo scandalo Nixon, fino alle soglie dell’era Regan, vi lavorerà per oltre trent’anni, rimanendo protagonista attivo ed allo stesso tempo di secondo piano di grandi cambiamenti storici ed in particolare della lotta per l’integrazione razziale. Parallelamente alle vicende di lavoro viene raccontato il grande calvario familiare che Cecil dovrà affrontare, tra una moglie alcolizzata ed un figlio maggiore impegnato come attivista nelle campagne di Malcolm X e Martin Luther King, fino alle rappresaglie del movimento rivoluzionario del Black Panther Party.

Questa per sommi capi la trama di The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca, pellicola evento del 2013, già in profumo di Oscar, tratta dalla vicenda reale di Eugene Allen, impiegato nella residenza dei presidenti dal 1952 al 1986, la cui biografia è stata raccontata nell’articolo del 2008 A Butler Well Served by This Election di Wil Haygood, stuzzicando subito la fantasia (e le ambizioni) della produttrice Laura Ziskin, la quale decise subito di acquistarne i diritti per farne un’opera di grande successo. Purtroppo per la povera Laura, deceduta nel giugno del 2011 senza aver potuto vedere concluso il suo mastodontico progetto, il film si può classificare a tutti gli effetti come un’intelligente opera di marketing, che non nasconde però il suo sfacciato ricorso ad un pàthos rasente il patetico, un uso smodato di temi toccanti (ma purtroppo ormai più che abusati), che vanno dalla pura discriminazione fino al rapporto conflittuale tra padre e figlio, senza disdegnare una sana spolverata di patriottismo made in USA. Un vero peccato, per un’opera che di potenzialità pareva averne eccome, a cominciare da una storia potente, che se ben trattata, avrebbe potuto fare il colpaccio del secolo. Invece ci rammarichiamo di notare come la regia di Lee Daniels (premio Oscar nel 2009 per lo splendido Precious) risulti a conti fatti del tutto inadeguata per una produzione di così alto livello ed aspettative, facendo leva su una sceneggiatura, scritta a quattro mani con Danny Strong, in cui gli accadimenti seguono uno sviluppo a dir poco imbarazzante, risolvendosi in maniera talmente puntuale e schematica che pare di assistere ad una lezione di scrittura creativa.

Dopo un incipit tra i più rapidi e superficiali degli ultimi vent’anni, la pellicola procede a blocchi solidi e compatti, seguendo didascalicamente gli avvenimenti storici dell’america razzista a cavallo di un trentennio di fuoco, di cui Cecil ed i suoi familiari appaiono un contrappunto veramente troppo poco approfondito. Il povero Forest Whitaker è come sempre bravissimo, ma pur recitando con grande passione e ben evidenziando i drammi interiori del suo personaggio, drammi che la sceneggiatura da sola non è in grado di far emergere, non riesce a salvare il film: purtroppo, laddove manca la sostanza, nemmeno il miglior cuoco sulla piazza può far molto. Così il lungometraggio si trascina per inerzia, lasciando campo libero ad un vero e proprio red carpet di star di prima grandezza che sfilano sotto il nostro naso come sulla passerella di uno stilista, fermandosi giusto il tempo di far godere della loro presenza e poi scomparire nel nulla. Incominciamo con il mostro sacro Robin Williams, qui impegnato a dare volto all’arrendevole presidente Eisenhower, un ritorno affettuoso ma che lascerà interdetti molti fan. Seguono a ruota un improbabile James Marsden nei panni (del tutto fuori ruolo) di John Fitzgerald Kennedy, uno schizzato (ma purtroppo non adatto) John Cusack nelle vesti del folle Nixon, un divertentissimo Liev Schreiber come Lyndon Johnson ed infine uno splendido Alan Rickman, letteralmente un clone di Ronald Regan, accompagnato dalla first lady Nancy con le fattezze della cara vecchia Jane Fonda.

Completano il cast la bravissima e struggente Oprah Winfrey (Il colore viola) nel ruolo di Gloria, moglie di Cecil, Cuba Gooding Jr. nei panni del collega maggiordomo Carter Wilson e David Oyelowo in quelli del figlio maggiore Louis. Un supporto tecnico anch’esso di tutto rispetto, a cominciare dalla splendida fotografia di Andrew Dunn e alle fedelissime scenografie di Tim Galvin, senza dimenticare i raffinatissimi costumi disegnati da Ruth E. Carter e l’ottimo lavoro di trucco (soprattutto nelle metamorfosi presidenziali) di Kellie Robinson. Purtroppo, però, il bel pacchetto regalo, una volta aperto, si rivela pieno di grandi banalità e di facili emozioni, le quali sembrano scaturite direttamente da un blockbuster di Ron Howard o da una cine-epica alla Clint Eastwood (gli echi di Invictus rimbombano alla grande!). Insomma, un film di parte e per parte, dove la discriminazione e l’american history vanno a braccetto all’interno di un racconto che vuole essere Il discorso del re miscelato con Quel che resta del giorno, ma che di regale ha ben poco, se non l’impianto formale. Un vero peccato perché storie come queste sarebbero un vero tesoro per il cinema stantìo di oggi, a patto però che vengano trattate con i guanti, come meriterebbero. Un progetto con tutte le carte in regola, ma un giocatore poco esperto.


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