The Clone Returns Home (Kanji Nakajima) ★★★ /4

Creato il 01 luglio 2011 da Eda

Kuron wa kokyo wo mezasu, Giappone, 2008, 110 min.

Alle volte ti ritrovi a vedere film che poi si rivelano del tutto estranei rispetto al genere col quale vengono etichettati (un pessimo esempio lo abbiamo avuto recentemente con I guardiani del destino). Se andate su imdb e cercate questo film vi verrà fuori la scritta “sci-fi”, fantascienza. Bene: la Terra è di nuovo minacciata dagli alieni? Nossignore. Un esercito di cloni sta per distruggerci tutti? Nemmeno. Una missione spaziale andata male? Macchè. Siamo in territori vicini alla fantascienza più metafisica, quella alla Solaris per intenderci, ma qui ancora più estremizzata. La fantascienza è un pretesto, neppure così importante.

Nakajima, al suo primo lungometraggio, avvalendosi della produzione esecutiva di….. Wim Wenders (!?!?) crea un oggetto strano, complesso e affascinante, impegnativo per lo spettatore ma altrettanto appagante. Kohei (Oikawa Mitsuhiro) è un astronaura e stipula una “polizza assicurativa sulla vita” che prevede la sua clonazione in caso di decesso. Questo breve prologo è seguito da un lungo flashback sulla sua infanzia, segnata dalla tragica morte del fratello gemello Noboru, una ferita mai realmente rimarginata nel suo animo. Poi, durante una missione, per un incidente forse provocato volontariamente Kohei muore e ne viene creato il clone, ma qualcosa sembra non aver funzionato…

Con uno stile contemplativo, fatto di molte inquadrature fisse, nelle quali i sentimenti sono raffreddati da un’ottima fotografia smorzata, che gioca soprattutto sulle tonalità di blu e grigio, il regista riesce a creare un’atmosfera misteriosa, che spesso confonde ma allo stesso tempo ammalia. Naturale espressione visiva di questa sospensione è la nebbia, onnipresente negli esterni rurali, quasi a demarcare la sovrapposizione di due mondi, annullando le linee di confine tra vita e morte. Eventi surreali dal forte sapore simbolico si susseguono ammantati da questo alone d’indeterminatezza. Nakajima ha il vezzo, o il buon gusto, di non spiegare mai e se da una parte questo può frustrare lo spettatore, dall’altra produce risultati straordinari, come la scena da cui è tratto il prossimo fotogramma.

L’uso della colonna sonora e, soprattutto, degli effetti sonori è magistrale come nella scena del fiume o nel collegamento tra il vento che soffia fra gli alberi e quella strana “risonanza”, segno di un’anima errante, forse, che il protagonista e il suo clone avvertono. In questo contesto, però, a risaltare sono soprattutto due scene, nelle quali Nakajima decide di fare a meno del sonoro per non sovraccaricare emotivamente il climax. Così facendo crea nel primo caso una sequenza di una intensità quasi insostenibile e nel secondo una scena (nel finale) che chiude un cerchio, in uno strano e emozionante cortocircuito tra presente e pessato, Kohei e Noboru, umano e clone. Giù il cappello.

Menzione d’onore anche per tutti gli attori, o quantomeno al casting che ha scelto tutte le facce giuste: fattore importante in un film nel quale le presenze umane sono sempre molto contenute e i personaggi tra principali e secondari sono ridotti a 5-6. In particolare risaltano, oltre al protagonista, le prove delle due donne della pellicola: la moglie di Kohei, Nagasaku Hiromi, seppur con poco minutaggio, e soprattutto la madre, Ishida Eri.

Nakajima, ironicamente, usa i cloni come veicoli per riflettere sull’Uomo, sulla memoria, gli affetti, la famiglia, anche la religione. La necessità che sente il clone di tornare a casa, portandosi simbolicamente appresso la tuta da astronauta piena/vuota dell’anima di Kohei (o è Noboru?), di ritrovare quegli affetti che l’uomo aveva sepolto dentro di sè, è l’unico modo per fare pace con il proprio io, per ricongiurgersi e risolvere quel dolore e quei sensi di colpa che lo hanno attanagliato tutta una vita. Il fatto che sia proprio il clone a farsi carico di questo processo solleva in maniera intelligente i classici quesiti etici legati a questo tema, problematiche lasciate alle immagini e alla sensibilità dello spettatore e trattate apertamente solo in poche scene, come quella dei manifestanti inferociti che protestano fuori dalla sede della compagnia che ha effettuato la clonazione, o attraverso personaggi secondari, come il dottore.

Questa grande ricchezza tematica, nonchè visiva e simbolica, si rivela però difficile da gestire per il regista, il quale, soprattutto nella parte centrale, sembra perdere le coordinate della pellicola e brancolare senza meta come il clone che cerca di tornare a casa. Se già in generale in The Clone Returns Home il ritmo è pacato e riflessivo, qui diventa esplicitamente lento, le lunghe inquadrature statiche del vagare del clone girano a vuoto su se stesse; il film si inceppa e sembra non sapere più che direzione prendere. Fortunatamente tutta la parte finale si risolleva decisamente e la sua chiusa è “giusta” e coerente con tutto il resto. Nakajima non dà risposte semplici, anzi alle volte è piuttosto criptico, ma questo significa solo sforzo di elaborazione e interpretazione attiva da parte dello spettatore. Un film impegnativo quindi, ma la sua forza visiva ed emozionale riscattano ampiamente la visione, durante la quale è difficile non farsi stregare dalle atmosfere e dal fascino di una pellicola senza dubbio originale che si fa beffe delle etichette di genere per puntare, e arrivare, in alto.

EDA

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